Abbiamo fatti notare, nel precedente intervento, come, nonostante i notevoli progressi, soprattutto da parte esegetica, che avrebbero dovuto già rimuovere alla radice ogni possibile conflitto tra l’osservazione scientifica dell’evoluzione e il concetto di creazione, sussistano ancora due atteggiamenti, non conflittuali, ma precludenti un vero dialogo costruttivo. Li abbiamo definiti atteggiamenti di indipendenza e di concordismo.
L’indipendenza considera gli ambiti della ricerca scientifica e della ricerca teologico-esegetica come totalmente indipendenti e impenetrabili. È sicuramente un modo per evitare ogni possibile conflitto, in quanto entrambi gli ambiti conservano un’assoluta indipendenza, ma questa divisione in compartimenti stagni sminuisce di fatto il valore della ricerca in entrambi gli ambiti e appare una soluzione “pilatesca”: ricorderete che Pilato, evidentemente colpito dall’uomo che gli stava davanti, ebbe un lampo di illuminazione e chiese a se stesso: «Ti estin alètheia? – che cos’è la Verità?». Ma fu solo un attimo: subito dopo se ne lava le mani e ritorna alle sue occupazioni, rinunciando a ricercare una risposta.
Il concordismo tenta invece – disperatamente – di far conciliare il quadro emergente e continuamente evolvente del modello cosmologico, ivi inclusa l’evoluzione biologica, con il concetto di creazione. A questo tentativo si aggiunge a volte, spesso implicitamente, quello di “dimostrare” l’esistenza di Dio derivandola dai risultati della ricerca scientifica. Gli esempi più noti sono quelli di far coincidere il Fiat lux con il Big-Bang, di confondere il nulla (ex nihilo) con il vuoto quantistico, la creazione in sette giorni con le fasi dell’evoluzione cosmica. Questo atteggiamento, purtroppo persistente, è profondamente sbagliato, principalmente perché il concetto di Dio è incommensurabile a qualunque processo di derivazione scientifica. È il presupposto irrevocabile a tutta l’esistenza e non un caso specifico derivabile. Il pericolo insito in questo atteggiamento, già sperimentato più volte, è quello di trasformare Dio in un “Deus ex machina”, in un “Dio tappabuchi” che viene chiamato in causa per colmare le lacune della nostra conoscenza, lacune che, successivamente colmate dal progredire della conoscenza, spostano inesorabilmente l’intervento divino verso nuove nostre ignoranze.
Io credo comunque che, al di là delle forme anche banali di concordismo, che possono essere facilmente confutate, il pericolo più grande sia quello di cercare di inserire il concetto di creazione in un contesto temporale. È comprensibile che questo avvenga: in fondo tutta la nostra vita si svolge nel tempo ed è l’unico contesto che la nostra esperienza biologica conosce. Per uscire da questa insidia naturale, dobbiamo riflettere profondamente sul significato di “eternità”, simbolizzato mirabilmente dai nostri padri nell’espressione in secula seculorum.
Quello che io considero la grande novità del pensiero scientifico moderno in relazione alla riflessione appena richiamata e che pone le basi per un dialogo finalmente fruttuoso tra scienza e fede, tra evoluzione e creazione, è il nuovo concetto dello spazio-tempo, proveniente dalla scienza, dalla fisica, dalla teoria della relatività.
Ritorniamo per un attimo al modello standard di evoluzione del Cosmo: questa non si svolge all’interno di uno spazio e di un tempo assoluti, di entità aliene ed impassibili al Cosmo. Spazio e tempo sono componenti integrali del Cosmo stesso: come aveva mirabilmente intuito Sant’Agostino, il tempo ha senso solo all’interno del Cosmo, non è pre-esistente (in senso ontologico) al Cosmo.
È bene sottolineare come questa conseguenza derivi dall’esperienza scientifica del mondo, non da un ragionamento astratto. È quindi ragionevole, non irrazionale, pensare all’esistenza di entità che si collocano “al di fuori” della gabbia spazio-temporale. Un’esistenza fuori dal tempo e dallo spazio fisico, anche se non dimostrabile, è razionalmente e scientificamente plausibile. Oggi, 400 anni dopo Galileo, possiamo nuovamente ardire di “tentar l’essenza”. Dobbiamo però accettare di allargare gli orizzonti della nostra razionalità e non limitarci, o meglio lasciarci abbagliare, dalla pura e sola conoscenza scientifica.
La Creazione stessa quindi, come ha illustrato in forma accessibile e chiarissima il Cardinal Ratzinger in una serie di omelie quaresimali tenute anni fa nel Duomo di Monaco di Baviera, va intesa come un concetto, non come un evento storico. È chiaro che in questa prospettiva viene rimosso alla radice ogni possibile conflitto tra il progredire “temporale” della ricerca scientifica, che interpreta e colloca razionalmente i fenomeni nello spazio e nel tempo, e la conoscenza a-temporale, l’uscita verticale della persona umana dal tunnel orizzontale dello spazio-tempo verso l’Essere, verso i secula seculorum.
Possiamo nuovamente rileggere il Prologo di Giovanni e meditare come il Logos che era presso Dio – kai Theòs en o Logos – e il Logos era Dio, e per mezzo di lui ogni cosa è stata fatta, kai o Logos Sarx eghèneto – e il Logos si fece carne e pose la sua tenda tra noi: significa che l’immanenza di Dio nel Creato, la creatio continua, è la razionalità che riconosciamo nel Cosmo.
Questa impostazione pone finalmente le basi per un dialogo vero e ricco di frutti tra scienza e fede. La ricerca scientifica può procedere libera, ovviamente nel rispetto della persona umana, ma senza temere di dare “scandalo”, in senso etimologico, alla fede e alla teologia. E la teologia, in comunione e non in opposizione con l’esegesi (proprio ieri all’inaugurazione del Sinodo c’è stato un forte richiamo ai teologi e agli esegeti perché lavorino in sinergia e non in contrapposizione) è fortemente stimolata dai risultati scientifici a ripensare e riscoprire l’ispirazione originale nella Sacra Scrittura e nei Dogmi.
Ci sono molti problemi aperti, connessi al concetto di Creazione, ovvero al pensare l’Uomo come essere creato, che, dall’evidenza scientifica dell’evoluzione, richiedono urgentemente una rivisitazione: penso al significato del Peccato Originale – che non a caso Ratzinger tratta nelle sue omelie unitamente alla Creazione – penso alla natura dell’Anima umana e del suo destino: senza sposare acriticamente le tesi di Vito Mancuso, il fatto che il suo libro dallo stesso titolo, si sia trasformato in un best-seller indica chiaramente il desiderio dell’uomo d’oggi di interrogarsi e di indagare sul proprio destino, usando per intero la propria capacità razionale.
Come procedere oltre? Non vedo altra possibilità che il dialogo.
Scrive Sergio Rondinara, ingegnere nucleare, filosofo e teologo: “La capacità di affrontare un autentico dialogo non è affatto scontata, non bastano la buona volontà e le necessarie competenze, ci vuole anche il coraggio di un certo spogliamento di sé sul piano intellettuale affinché il contributo dell’altro e l’autentica offerta del proprio “dono di scienza” siano fattivi e stimolatori di una comune crescita nella sapienza”.
Per ritrovare le radici di questa sapienza, vorrei concludere con la parole di un grande filosofo dell’antichità, Platone, che in tempi non sospetti scriveva, riguardo la possibilità di conoscere la Verità: dopo un lungo essere insieme in dialogo su questi temi, dopo una comunanza di vita, la conoscenza della Verità, improvvisamente, come luce che si accende allo scoccare di una scintilla, nasce nell’anima e da se stessa si alimenta – Platone, Lettera VII.
Concludiamo quindi questa riflessione con l’augurio che il dialogo prevalga, nell’attesa dello scoccare della scintilla della vera conoscenza.