Pendolari sui mezzi con libri in mano se ne vedono tutto l’anno, e la lettura in estate guadagna seguaci, che sia per il costume dei docenti di assegnare letture estive ai loro allievi o per la scelta consapevole di adulti e giovani di mettere qualcosa da leggere in valigia, approfittando del tempo libero in più. Si acquista l’ultimo titolo di grido, quello che tutti stanno leggendo; un Camilleri, uno Stephen King, una Hawkins, o una Atwood, oppure un nome “diverso”, un Mohsin Hamid.
Una bella selezione, con Eskol Nevo, Isabella Allende, Betty Smith e molti altri, l’ha fatta una mia collega, mentre nella mia valigia ci sono finiti, all’ultimo minuto e abbastanza d’impulso, Il cavallo rosso di Eugenio Corti, Disgrace di Coetzee (riletture), una biografia di Jack Kerouac, a cui si sono aggiunti, letteralmente strada facendo, Cry, the beloved country e un De Lillo che non avevo. Per i miei figli ancora studenti, la scelta è stata fatta dai loro docenti: tre-quattro libri, da Karen Blixen La mia Africa a Il fu Mattia Pascal di Pirandello. Le loro letture sarebbero quindi il risultato dell’azione, a onor del vero non coordinata, di più docenti e, sempre ad onor del vero, nessuno dei titoli sembra aver destato molto interesse nei destinatari dei consigli per l’estate; A Hitchhiker’s Guide to the Galaxy e The Lord of the Rings, invece, li hanno messi in borsa loro (in lingua italiana).
Meglio la scelta culturale saggiamente operata dai loro docenti per miei figli, oppure il gusto personale da loro esercitato verso titoli “leggeri”; meglio quella meditata della mia collega, o la mia, inconscia ricerca di ricomprensione della storia italiana del Novecento e della ricerca di una prosa tersa, ma anche di un mondo lontano, il Sudafrica, letteralmente più vicino? Sarà l’afa estiva, che forse scioglie i freni inibitori, ma la risposta migliore sembrerebbe essere n’importe quoi.
Sembrerebbe meglio un libro scelto, e scelto con cura, per un gusto sviluppato — sia esso la ricerca della parola liscia, o della narrazione pulita, o del personaggio esotico, o del mondo sconosciuto — nella costruzione di un proprio “canone”; non soltanto Harold Bloom è lettore, e non solo lui può scegliere i grandi autori per il suo Canone Occidentale, e il fatto che le nostre scelte possano non essere condivise dal mainstream, appare del tutto irrilevante. Nessuno cederebbe mai il potere della scelta di un libro, vero e proprio terreno di libertà, in una rete di consigli e suggerimenti di cui ci si sente il centro di potere, anche quando non si fa che raccogliere il suggerimento di leggere il best-seller di turno.
Anche il libro dove si è caduti per imitazione, o per caso, o persino per noia, appaga un bisogno: narrare. Perché è nella testa del lettore che la narrazione avviene, è lui che narra, non l’autore; perlomeno questa è la dimensione più ordinaria della narrativa “moderna”. Il narratore onnisciente, intrusivo, così attento al suo lettore da rivolgergli la parola, da commentare, da interpretare la storia per lui, ci ha lasciati ad inizio Novecento. Un altro, silente, pura voce narrante, ci è molto più familiare; superata la cresta del romanzo del flusso di coscienza, con i monologhi di un Bloom o di una Mrs Ramsay o di una Mrs Dalloway, l’onda ha portato a riva scritture arricchite in molti casi di narrazione pulita, asciutta, e i generi tradizionali non sono affatto morti, ma rinati.
Si continua a narrare, e in vacanza si narra molto di più. Che altro sono i selfie se non una narrazione il cui unico scopo è dire “questo luogo lo faccio io ora, essendoci”? Pretesa divina a tutti familiare, rispetto alla quale il narrare che si fa attraverso la fantasia di un altro, che normalmente si mette in disparte per regalarci un’illusione di onniscienza, appare comunque un atto di umiltà.
Nel libro si apprende una nuova narrazione delle cose conosciute e la narrazione di quelle sconosciute, entrate nell’orizzonte per caso. E’ anche vero che ogni narratore, cioè ogni lettore, è al centro di cerchi concentrici che non sono affatto infiniti; il contatto con altre sfere è limitato, perché soprattutto oggi si tende a conoscere solo il noto. Legge dei social, che non trova eccezione nella lettura, anzi; a parte quei casi di libri pescati per caso e che si rivelano del tutto diversi dal filone d’oro che si persegue, aprendo una nuova vena (per un suggerimento, un accento, un viaggio, un trasloco, un “nuovo” che ne apre un altro), di solito i cerchi si allargano, concentrici, a partire da un unico punto di interesse. Lasciargli lo spazio per crescere è l’unica strategia possibile e vincente, tutte le altre, di tipo coercitivo, anche la scelta autoimposta per una “necessità pratica”, falliscono; il libro verrà letto, se l’obbligo è ineludibile (o si troveranno strategie per eludere la lettura “obbligatoria”) ma i cerchi concentrici saranno deboli e svaniranno presto, senza entrare in contatto con nessun altro cerchio.
Da ragazzina, priva di alcuna guida e trascinata da un unico “centro”, le storie di fantascienza, svuotai tutti gli scaffali della biblioteca del paesino di mare dove alloggiavo, avendo terminato la “scorta” di libri procurata, e essendo quel settembre molto piovoso. Heinlein, Dick, Asimov soprattutto, e molti altri senza nome ora, quella che si direbbe “robaccia”. Rientrata a casa proseguì “l’operazione svuotamento” nella biblioteca locale (mia madre non poteva permettersi una figlia che avrebbe acquistato tre libri a settimana e in casa ne avevamo credo tre, acquistati per uno zio, l’unico ad aver studiato). Stavo perdendo però man mano gusto, perché al centro non si accendeva alcuna fiamma, e i libri avevano iniziato a starsene lì, iniziati e non finiti. Un docente del liceo mi vide un intervallo con in mano uno dei tanti libri che prendevo a caso e, invece di disapprovare la mia scelta, mi consiglio un libro del Ciclo di Shannara. Da lì, il passo al Signore degli anelli, letto in 23 ore, fu breve. Nel frattempo la scuola cominciava a proporre antologie letterarie e, precedendo la scelta estiva dei miei docenti, ci fu il Macbeth. Lui si portò dietro Shakespeare, e il Bardo si portò dietro n’importe quoi.
Ben vengano i top ten dei libri più venduti dell’estate, il passaparola fra lettori adulti, un’indicazione ragionata di amici che desiderano approfondire un punto di interesse rilevante; ma se si è persuasi che il cerchio paghi, perché non concedere agli studenti la possibilità di leggere per la scuola, ma non per il programma della scuola? Un elenco di libri, che accolga i contemporanei nel Pantheon degli eletti, per viaggiare nello spazio così come si viaggia nel tempo con un libro, e se proprio si deve (non per obbligo, ma per conoscenza dei cerchi presenti, magari deboli, magari forti, magari assenti, degli studenti), l’indicazione di un numero minimo di testi da leggere fra cui sia sempre — sempre — possibile sostituirne almeno uno con un titolo scelto dallo studente. Che potrà attivare il suo centro condividendolo con il docente e i compagni. Quella dimensione che in teoria dovrebbe caratterizzare il percorso didattico dell’anno (il docente condivide le sue letture con gli studenti, portandoli a scoprire quello che ha scoperto anche in senso strettamente accademico), ma che spesso non si realizza, che almeno avvenga d’estate.
Alla Bradbury, insomma; in Fahrenheit 451 i Book people non imparano a memoria un libro per un piano di salvezza dei grandi della cultura, ma memorizzano quel libro perché lo hanno letto ed amato. Se l’estate è il tempo della libertà, scegliamo i libri.