Lo si sa: ciò che il bruco chiama fine del mondo, il mondo lo chiama farfalla. Non ce ne siamo accorti, forse. Oppure ce ne siamo accorti, ma, ottusi dall’inerzia ideologica novecentesca o dal disagio professionale che avrebbe comportato riconoscerlo, si è preferito negare la transizione. Ma a cavallo del secolo, è intervenuto un vero e proprio cambio di paradigma pedagogico che è tuttora dolorosamente percorso da lunghe e contraddittorie doglie, ma che sembra ormai destinato ad essere irreversibile in tempi dominati da fenomeni come la globalizzazione, le migrazioni multiculturali, la tecnologia in generale e le Ntc in particolare che scombinano classici confini e antiche abitudini.
1. Venivamo da un lungo periodo nel quale era diventato addirittura senso comune che, di fatto, dovesse essere ogni allievo ad adattarsi alla scuola che c’era, alle strutture e alla organizzazione di cui era caratterizzata, ai docenti in graduatoria che vi insegnavano. La scuola simbolo dello Stato, della Cultura, dei Valori nei confronti dei quali il singolo valeva, si elevava e si educava nella misura in cui vi si uniformava.
Scavallato il secolo divenne anche ordinalmente e istituzionalmente chiaro il contrario: Scuola, Stato, Società, Cultura, Valori dovevano essere i mezzi indispensabili e preziosi, ma mezzi, per realizzare il fine persona di ogni persona, l’unico davvero centrale e sempre creativo. Il significato pedagogico della “personalizzazione” tanto contestata quando apparve fu questo, in fondo.
2. Venivamo da un altrettanto lungo periodo nel quale era diventato addirittura senso comune la convinzione per la quale non solo insegnare, ma educare volesse dire parcellizzare ed astrattizzare gli interventi di istruzione e formazione. Separare tra loro e rendere sempre più formali le discipline, i docenti, gli orari, le strutture scolastiche (licei, istituti tecnici, istituti professionali, centri di formazione professionale). Senza contaminazioni. Ma anche separare e formalizzare le componenti della persona stessa: la mente staccata da corpo, affetto, pulsione, sentimento, simbolo, esperienza, e poi la mente solo mente teoretica, quasi mai, insieme, anche ragione tecnica e ragione pratico-morale (volontà). E il tutto viceversa. Quasi fosse possibile una formazione intellettuale senza allo stesso tempo quella morale, tecnica, manuale, espressiva, affettiva, motoria ecc. Separare, infine, tra loro, e formalizzare, i compiti delle istituzioni stesse, fino a rendere le azioni educative di scuola, famiglia, chiesa, Stato, società civile quando non alternative perlomeno parallele. Come i binari. Ciascuna con proprie e invalicabili sfere di sovranità.
Scavallato il millennio, tuttavia, apparvero addirittura in documenti ministeriali parole simbolo del contrario, che raccolsero il sarcasmo di tanti bruchi ingenui o maliziosi: “olismo educativo”, “ologrammaticità dell’insegnamento”, “unità di apprendimento”, “alternanza scuola-lavoro e scuola-società”, “pari dignità dei percorsi educativi di istruzione (scolastica) e di formazione (professionale)”, “circolarità ricorsiva delle differenze”.
3. Ebbene, è in questo contesto che va collocata, sul piano pedagogico, la svolta delle competenze. Venivamo da un periodo, infatti, nel quale la competenza si era appiattita sul significato di “prestazione professionale”. Roba da economia taylor-fordista. Chi non ricorda le famose “unità formative capitalizzabili”, quasi che le competenze fossero il prodotto dei mattoni di un Lego? In ogni caso, venivamo da un periodo nel quale la competenza era considerata un “oggetto” esterno alla persona, a cui essa si doveva volente o nolente adattare. È il mercato, bellezza!
Scavallato il millennio, tuttavia, il concetto di competenza cambiava. Diventava, facendo nuovamente ridere tanti bruchi ingenui o maliziosi, “competenza personale”. Non più un “oggetto” da raggiungere, ma la qualità di un “soggetto in continua evoluzione” da promuovere. Era la persona che doveva maturare, impiegando la Cultura, i Valori, le Istituzioni, le Persone che incontrava, e dimostrando in situazione le proprie “competenze personali”. E se era la persona che diventava competente era naturale, quindi, che ogni competenza, anche la più specifica, da un lato, mobilitasse l’intero delle capacità e delle componenti di ciascuno; dall’altro, che si dimostrasse tale nel concreto delle reali esperienze della vita personale e sociale, quindi nell’esecuzione di compiti, nell’elaborazione di progetti e nella risoluzione di problemi autentici. La scuola non doveva più preparare alla vita, come se non fosse vita. Non doveva più preparare al lavoro, come se il lavoro non fosse scuola. Non doveva più preparare alla cittadinanza, come se l’esercizio della cittadinanza non fosse scuola, cultura, valori.
Le “competenze trasversali” non potevano più essere cosa altra, separata, rispetto a quelle “professionali”: l’orizzontale infatti era e doveva essere allo stesso tempo anche verticale. Come capita nella dinamica esistenziale di ogni persona. Il docente non poteva più davvero insegnare se lui stesso non dimostrava “competenze personali”. Ovvio che, in questo quadro, dovesse cambiare chi, come, dove, quando e perché si potevano “valutare le competenze personali” degli allievi e, non meno, dei docenti. Non potevano certo bastare i quiz o le carte della burocrazia amministrativa e sindacale di trimestre e di fine anno.
Le “competenze personali” a trecento anni dalla loro nascita e soprattutto a duecentocinquanta dalla pubblicazione dell’Emilio, quindi, cominciavano a celebrare la svolta invocata da Rousseau: “la vera educazione non è fatta di precetti, ma di esercizi e di testimonianze; noi infatti cominciamo ad istruirci cominciando a vivere (…); vivere è il mestiere che voglio insegnargli (…). Vivere non significa respirare, ma significa agire, significa far uso degli organi, dei sensi, delle facoltà, di tutte le parti di noi stessi che danno il senso, il sentimento dell’esistenza”. Come finirà la partita? Vedremo. Certo, mai come oggi il futuro è nelle mani (nella responsabilità) di ciascuno.