Pubblichiamo, per gentile concessione dell’Autore, la prolusione di Andrea Moro, linguista e prorettore vicario della Scuola Superiore Universitaria IUSS-Pavia, a inaugurazione dell’anno accademico 2014-15.
Di quale vigilia siamo testimoni noi? In questa stessa aula, poche settimane fa, Richard Frackowiak ha illustrato il punto della situazione di uno dei cosiddetti “progetti faro” (Flagship grants) che coinvolge ben 26 Paesi della Ue coordinati in questo caso dal Politecnico di Losanna: la riproduzione di un cervello umano artificiale; valore stimato: 1,19 miliardi di euro; data di consegna: 2023.
Ci troviamo dunque ancora all’alba di una nuova partenza, solo che le rotte che stiamo cercando non uniscono spazi immensi fuori di noi ma sono interamente contenuti nei pochi centimetri che separano un orecchio dall’altro. E non è tutto; gli Usa entrano nell’agone della conquista rispondendo con la loro “BRAIN Initiative (Brain Research through Advancing Innovative Neurotechnologies” che ha una dotazione di 3 miliardi di dollari. Anche in questo caso, data di consegna: 2023. Per chi ha la mia età sembra di essere tornati ai tempi dei duelli per lo spazio, quando le due superpotenze — così ingenuamente le chiamavamo — si dividevano a colpi di grancassa gli annunci sulle missioni spaziali: la gara verso la scoperta del cervello come lo spazio negli anni 60. Cambiano i duellanti: Eu vs. Usa.
Cosa cercavano nel 1491? Non terre, ma rotte: non si aspettavano di aggiungere niente di concreto a quello che possedevano; si aspettavano infatti di arrivare più facilmente dove erano già in grado arrivare (in Catai e Nipango, come li chiamavano dai tempi di Marco Polo; Cina e Giappone, cioè). Ma non erano sicuri; erano ragionevolmente sicuri. Si fidavano, cioè delle ipotesi sulla rotondità della terra (che non era certo in dubbio a quei tempi) e, soprattutto delle misure sulla grandezza del pianeta. Le misure erano sbagliate: se fossero state giuste sarebbero morti tutti (Cina e Giappone non erano raggiungibili da quella parte con le agili ma piccole caravelle). La sorte, tuttavia, ricambiò la fiducia di chi non si negò l’esperienza di retro al sol, del mondo senza gente e li fece protagonisti di una scoperta vera: non trovarono una rotta, trovarono una terra (che infatti chiamarono India) che non si aspettavano di trovare. Ma noi, noi siamo davvero all’alba della scoperte rivoluzionarie riguardo al cervello? Dipende in un certo senso anche dalla nostra capacità di accettare i risultati.
Naturalmente, la caratteristica definitoria di una scoperta è che una vera scoperta non la si conosce prima. Certo anche noi partiamo equipaggiati di una teoria della quale ci fidiamo — sennò non partiremmo — e anche noi partiamo con l’idea di trovare qualcosa ma la nostra pretesa sulla realtà, se non vogliamo andare incontro alla delusione, non deve essere più forte della realtà stessa: dobbiamo essere, anche in questo campo, disposti al giudizio e lontani dal pregiudizio. In altre parole, si parte davvero solo se si è disposti a incontrare il nuovo. In questo senso la scoperta non nasce necessariamente dalla mobilitazione di fondi enormi. Sempre in questa sala all’inaugurazione della nuova sede della Scuola Universitaria, alcuni ricorderanno la lezione di Noam Chomsky il quale disse che “occorre imparare a stupirsi di fatti semplici”.
In questo senso, viviamo sempre nel 1491 perché siamo sempre potenzialmente in una vigilia, a patto di allenarci allo stupore. Qualcuno obietterà che è il caso che guida le scoperte, ma non siamo così ingenui da dissentire da Pasteur quando ammetteva che “dans les champs de l’observation le hasard ne favorise que les esprits préparés”. Anche Lucrezio il grande — che ci riserva sempre sorprese immaginifiche — ci viene in soccorso con un esempio indelebile. Pensava a quel momento quando in una stanza buia un raggio di luce colpisce il pulviscolo e noi lo vediamo muovere in modo caotico — come se infinite piccole particelle stessero combattendo — dandoci un’immagine del movimento degli atomi che regola tutto ciò che vediamo e tocchiamo. Diceva, sussurrando: “dumtaxat rerum magnarum parva potest res exemplare dare et vestigia notitiai” (per quanto piccole cose offrano la traccia di grandi eventi, Lucr. II DRN 123-124).
E non lasciamoci ingannare dalla retorica della bellezza come guida per lo scienziato: certo la bellezza dà soddisfazione ma non è affatto vero che serva da guida nella scienza. Nel 1916 Albert Einstein nella prefazione alla sua autobiografia scriveva che “I adhered scrupulously to the precept of that brilliant theoretical physicist, L. Boltzmann, according to whom matters of elegance ought to be left to the tailor and to the cobbler”. Noi siamo piuttosto guidati dalla realtà, che non è necessariamente bella, anche se bello può essere il piacere che scaturisce nel comprenderla. E talvolta siamo perfino guidati dai fantasmi: a pochi passi da questa aula, da ragazzo ebbi la fortuna di sentire dalla sua viva voce le parole di un grande della filosofia del novecento, Karl Popper, dire che un uomo che fa ricerca è come un individuo vestito di nero che cerca un cappello tutto nero in una stanza buia che non sa nemmeno se è lì. Se lo fa, se continuiamo a farlo, è evidente che occorre includere la speranza o meglio le ragioni delle nostra speranza nel metodo scientifico.
Questo caso specifico solleva però la questione generale di come si valuta il successo di un’impresa di ricerca. La domanda sembra banale, ma non lo è affatto. Prendiamo ad esempio un’altra impresa colossale avvenuta in tempi recenti: la mappatura completa del genoma umano, certamente uno dei punti di svolta della nostra specie, una sorta di autocoscienza materiale che ci mette addirittura nella posizione di alterare l’architettura del nostro organismo al posto della natura. Quando si è trattato di valutare i benefici della mappatura sul genoma, le parole di Obama non sono state prive di una certa ambiguità. Il Presidente ha detto: “Ogni dollaro investito nella mappatura del genoma ha generato 140 dollari per la nostra economia, ogni singolo dollaro” (David Jackson, Usa Today). Curioso modo di valutare i benefici scientifici: invece di dirci quali malattie sono state curate ci dice che l’indotto di questa impresa è stato molto vantaggioso sul piano economico. Non stento a crederci. Mi viene in mente quando da ragazzino sentivo i proclami sui benefici della conquista della Luna. Certamente, anche allora ogni dollaro investito ne ha fruttati molti, ma i benefici — che io sappia — sono più o meno confinati nei sistemi di conservazione del cibo con pellicole plastiche e poche altre innovazioni nell’ambito dei materiali. I frutti economici cospicui venivano invece dalle esclusive televisive e dalla vendita di giocattoli e gadget.
Il fatto è che la questione della misurazione del risultato spesso parte da un presupposto sbagliato: che l’offerta si sviluppi sulla base di un’esigenza. Ma questo non è quasi mai vero. I governanti del XV secolo non avevano necessariamente esigenza di trovare nuove rotte per le Indie: furono persone coraggiose, ambiziose ed entusiaste come Colombo a far capire che quella esigenza c’era e che i risultati avrebbero fornito vantaggi indiscutibili. In altre parole la richiesta non va attesa, va indotta. Non si dica che non siamo capaci di farlo. Sarebbe ora di rendersi conto che si spende di più ogni domenica per scommettere se una palla entra in rete che in tutto l’anno per gestire un progetto di ricerca in oncologia. Anzi, se estendiamo l’osservazione al gioco in generale nel nostro Paese, perfino i progetto degli Usa e dell’Ue diventano briciole: nel 2008 — prima della grande crisi — il mercato dei giochi ha sfiorato i 47,5 miliardi di euro (dati Eurispes). Perché il Paese non chiede investimenti scientifici ma spende per le scommesse? Perché noi non siamo stati capaci di far capire l’importanza della ricerca scientifica nel concreto delle nostre vite.
È evidente che di fronte ad una scelta ben posta sceglieremmo per il nostro bene: tra il vaccino per un tipo di cancro e un gol della Juventus sapremmo su cosa puntare. Il fatto è che noi scienziati, noi uomini di cultura non siamo affatto stati capaci di costruire questa richiesta. E si tratta di una sfida che non può e non deve incominciare con gli adulti: questa è una sfida preliminare che incomincia già con la scuola, ora finalmente al centro dell’attenzione del nostro Governo perché l’oro nel nostro Paese è grigio come la materia che lo sa riconoscere. Abbiamo inventato la pila, la plastica, la radio, scoperto come mettere in evidenza i neuroni: se queste risorse fossero il futuro, non avremmo più problemi economici.
Ma torniamo dal generale al particolare e chiediamoci ancora cosa cerchiamo e con quali risorse partiamo equipaggiati nella nostra impresa alla scoperta del cervello. Noi infatti cerchiamo di comprendere il funzionamento e la natura non di un cervello qualsiasi ma del cervello umano e il cervello umano si distingue da quello di tutti gli altri animali, come disse bene una volta per tutte Cartesio nel Discorso sul metodo, per il fatto di permettere di “poter disporre insieme delle parole e con esse esprimere un pensiero”, di avere cioè a disposizione una sintassi che fa “un uso infinito di mezzi finiti”, nelle parole celebri di von Humboldt. Per questo motivo non viene in soccorso nostro — per fortuna o per sfortuna — la scorciatoia dei modelli animali. Questo è il vero big-bang che caratterizza tutti e solo gli individui della nostra specie, nessuno escluso, e per capirne l’origine e la natura tutte le discipline sono chiamate in causa perché per fortuna il linguaggio non è di nessuno, tantomeno dei linguisti anche se dobbiamo riconoscere che, tutte le tecniche di ricerca contemporanee — incluse le neuroimmagini che ci danno una prospettiva impensabile sul cervello umano — giacerebbero mute se non si potessero formulare domande nate dall’accumulo di quello che si è scoperto osservando e comparando anche attraverso il mutamento nel tempo le regolarità delle lingue umane, soprattutto nel secolo scorso. E il linguaggio si qualifica come “stella polare” in questa nostra navigazione, il fatto semplice che innesca la curiosità.
Da cosa partiamo oggi nella ricerca su linguaggio e cervello? primo, il cuore del linguaggio umano, la sintassi è il frutto di un’azione integrata e specifica di una rete neuronale dedicata; secondo, le grammatiche delle lingue umane non possono variare a piacere ma sono limitate dall’architettura neurobiologica del cervello come se Babele avesse dei confini. Cosa rimane da scoprire? Tutto. Se noi ora conosciamo il dove, intendo dove nel cervello avvengono le computazioni, rimane da comprendere il cosa, cioè il codice con il quale i neuroni comunicano tra loro. Il linguaggio umano, infatti, vive fuori di noi e dentro di noi: fuori sotto forma di onde acustiche, vibrazioni d’aria, dentro sotto forma di onde elettriche prodotte dal sincronismo di miliardi di neuroni. La domanda centrale è come queste famiglie di onde si assomigliano. Questo le neuroimmagini non ce lo possono dire, questo può al momento essere affrontato soltanto con un’indagine ravvicinata delle attività dei neuroni, cioè con un’indagine neurofisiologica.
Lasciatemi peccare di orgoglio per il sistema pavese, spesso nominato e non altrettanto spesso concretizzato e equipaggiato, dicendo che si è distinto in questo ambito con una ricerca congiunta tra Università e Scuola Universitaria Superiore, condotta da una squadra che comprende un neurochirurgo di Pavia, Lorenzo Magrassi, ingegneri elettronici guidati da Valerio Annovazzi e un linguista, il sottoscritto. Ci sono voluti 4 anni e il lavoro su un numero anomalo di pazienti (sedici, contro uno o due della norma) per arrenderci al fatto davvero totalmente inaspettato che i neuroni che si sa per certo essere coinvolti nell’elaborazione di elementi strutturali e grammaticali del linguaggio si trasmettono informazioni tramite onde elettriche che hanno forma d’onda acustica anche in assenza di suono, dando sostanza neurofisiologica all’impressione soggettiva che abbiamo che le parole risuonino in testa anche quando pensiamo e in linea di principio di accedere al contenuto linguistico dei pensieri anche se non vengono pronunciati. Si apre dunque la strada per un analisi del contenuto linguistico centrale verso la decifrazione del codice di trasmissione dei neuroni. Cosa troveremo? Non possiamo dirlo ora; quello che invece possiamo dire con certezza è che occorre prima convincere dell’utilità di questa impresa ed insieme ad essa del fatto che capire cosa fa di un cervello umano un cervello in grado di parlare ci porta a capire le nostre origini in un modo che non ha precedenti.
Ma 1491 non è stato solo la vigilia di un’impresa entusiasmante che ha allargato i confini e cambiato la storia. È stato anche la vigilia di due pagine cupe della storia dell’umanità, due pagine di un incubo che non che è ancora finito e che anzi ruggisce ancora dentro le nostre mura. Il 1492 è anche un anno simbolo per l’intolleranza religiosa — la madre di tutte le intolleranze — quando i fratelli ebrei che non si fossero convertiti al cattolicesimo furono banditi dalla Spagna provocando una catena di sofferenze e di ingiustizie interminabili. E sempre il 1942 è stato anche l’anno della distruzione del fiorente sultanato di Granada, i cui raffinati monumenti furono salvati in un barlume di lucidità, un evento che chiuse in modo violento la possibilità di dialogo tra due civiltà. Il passato, dunque, è qui tutto intero e ci ammonisce: abbiamo di fronte tre vigilie, starà a noi impegnarci per sperare di scegliere a quale di questa vogliamo trovarci di fronte.