Si sono appena concluse in Inghilterrale celebrazioni del ventennale della morte di Anthony Burgess, scrittore, critico letterario britannico, esperto conoscitore di musica, uomo di interessi molteplici e sperimentatore di linguaggi, tra gli autori inglesi più prolifici e tradotti del Novecento.
Per la verità la ricorrenza è stata sottolineata in particolare dalla International Anthony Burgess Foundation, di Manchester, che si è assunta il compito di tenere viva la memoria e l’eredità di questo straordinario scrittore. La cultura dominante invece ha preferito ignorarlo. Il motivo è intuibile, se si vanno a rileggere alcune tra le opere più significative di questo sorprendente autore, a cominciare da quella a cui il nome di Burgess resta maggiormente legato, ovvero il romanzo Arancia meccanica (A Clockwork Orange, scritto nel 1962, letteralmente Un’arancia a orologeria) da cui fu tratto nel 1971 l’omonimo e celeberrimo film di Stanley Kubrick.
Un film che fece epoca, che fece discutere anche per la rappresentazione cruda della violenza, magari trascurando il fatto che il nucleo centrale del libro di Burgess consiste nel fatto che è impossibile che l’uomo sia buono o virtuoso solo perché lo ordina lo Stato. Il romanzo di Burgess è ambientato in Inghilterra in un futuro prossimo rispetto al 1962 in cui viene scritto, un’epoca di ottimismo, il tempo del grande boom economico, di trasgressione beat ma anche di massicci interventi statali in vari campi della vita britannica.
Burgess affronta quindi il problema del male, non quello dei grandi sistemi ideologici, dei totalitarismi, dei “mostri” come Hitler o Stalin, ma il male stupido, banale, gratuito, quello perpetrato ad esempio dalle bande di giovani teppisti annoiati.
Un tema che fu sempre caro a Burgess, che ne aveva fatto le spese direttamente, quando – durante la guerra – nel 1942, in una Londra squassata dai bombardamenti nazisti, tre soldati americani ubriachi si resero protagonisti di un “crudele e inconsulto atto di violenza” ai danni di sua moglie. Come disse in seguito a proposito del suo libro, “ritrarre la violenza doveva essere un atto catartico e caritatevole insieme”. Un perdono difficile, quello da dare a persone che lo avevano ferito negli affetti più cari, ma non impossibile per un uomo di fede come lui. Burgess infatti era cattolico; apparteneva al novero ristretto ma significativo dei fedeli inglesi della Chiesa cattolica, che tanto efficacemente è stato presente nella cultura britannica, da Chesterton e Belloc a Benson, da Tolkien a Graham Green, per non citare che i più rappresentativi.
Burgess era nato a Manchester in una famiglia già cattolica: non era un convertito, con quell’empito e quell’entusiasmo che spesso hanno i neofiti della fede. Era radicato nella storia tragica della Chiesa in Inghilterra, una storia di persecuzione, di martirio, di catacombe, di sofferenza sotto il peso di uno Stato-Leviatano che perseguì a lungo l’annientamento del cattolicesimo. Così, in Arancia meccanica come in molti altri suoi , il tema centrale è l’uomo minacciato dalla violenza, individuale come collettiva, vittima di condizionamenti ideologici che ne limitano la libertà, oppresso dalla macchina dello Stato. Sul libro che gli diede la fama scrisse: “Se Arancia meccanica, così come 1984, rientra nel novero dei salutari moniti letterari − o cinematografici − contro l’indifferenza, la sensibilità morbosa e l’eccessiva fiducia nello Stato, allora quest’opera avrà qualche valore”.
Ciò che Burgess definiva, con un certo understatement, “salutare monito letterario”, era in realtà parte di una lunga tradizione letteraria britannica, che va da Tommaso Moro a Johnatan Swift fino a Huxley e Orwell: una tradizione di narrativa utopica, ma allo stesso tempo di critica politica, e spesso di interpretazione acuta della realtà, quando non addirittura del futuro. È proprio questo il caso di Burgess, che immagina lo scenario inquietante dove il degrado urbano dilaga, le famiglie si rinchiudono in casa davanti alla televisione, uno Stato di polizia interviene solo attraverso la repressione, la classe politica è corrotta e opportunista. Uno Stato che vuole imporre per legge comportamenti “civili”, magari − come nel caso del teppistello Alex, attraverso strumenti di condizionamento, che sessant’anni fa venivano chiamati “lavaggio del cervello”, e che oggi si avvalgono di altri mezzi.
Ma se Arancia meccanica è questo romanzo in cui si esplora la natura del male, ancora più inquietante e oggi di grandissima attualità − è un altro romanzo di anticipazione che Burgess scrisse a breve distanza dal suo capolavoro, sempre nel 1962, Il seme inquieto, pubblicato in Italia dall’editore Fanucci. Se il succo di Clockwork Orange era che l’uomo deve essere libero per scegliere tra il bene e il male, in questa seconda opera Burgess dispiega per intero la sua visione del mondo e della storia, visti secondo una prospettiva teologica.
La storia umana prevede una sorta di ciclico ripetersi di fasi, riassumibili come agostiniana e pelagiana. La fase agostiniana è pessimista, fortemente consapevole della presenza del male nel mondo, coerentemente al pensiero di Sant’Agostino, e si traduce in termini politici nel conservatorismo. Il pelagianesimo invece era un’eresia prodotta da un monaco britannico (combattuta fortemente dallo stesso Agostino) che sostanzialmente negava il peccato originale e le sue conseguenze, riteneva che non fosse necessaria la Grazia come aiuto divino all’uomo, ma uno sforzo moralistico di miglioramento.
Nel pelagianesimo, il ruolo di Gesù è quello di presentare un “buon esempio” da seguire. Per Burgess la fase pelagiana va dal liberalismo al socialismo, segnati da ottimismo riguardo le sorti umane, che si traduce in progressismo politico, almeno fino a quando non deve fare i conti con la realtà. Allora la maschera ottimista e buonista cade e lascia intravvedere un volto arcigno, spietato, totalitario.
Nel Seme inquieto Burgess ci presenta una visione del futuro (siamo in pieno XXI secolo) spaventosa: il potere è ossessionato dalla sovrappopolazione, i bambini malati gravi vengono lasciati morire per risparmiare risorse economiche, mentre in compenso si attuano politiche salutiste di proibizione del fumo e dell’alcool. La procreazione è pesantemente scoraggiata, mentre lo Stato − e questa è una trovata interessantissima, vista l’epoca in cui il libro venne scritto − incentiva l’omosessualità vista come radicale soluzione per ridurre le nascite. Lo stile di vita omosessuale viene propagandato nella pubblicità, nei media, e palesemente chi è omosessuale ottiene promozioni e facilitazioni di carriera negli enti pubblici. La famiglia tradizionale è combattuta con tutte le forze a disposizione, fino ad interventi polizieschi repressivi. L’unica visione del mondo ammessa è quella del potere, dove l’individuo deve imparare ad accettare senza discutere, senza neppure esitare, la visione della società e della vita che gli viene imposta. Ma, come scrisse Burgess, “solo i malvagi e gli stupidi possono accordare fedeltà totale a un partito”.
Burgess difende in questo romanzo il diritto alla vita, le ragioni della famiglia, ma anche e soprattutto il diritto ad avere, come avevano detto anni prima i distributisti Chesterton e Belloc, una mente libera. Il romanzo ci presenta questa sfida di fronte ai condizionamenti del potere, alle seduzioni del male, alla fragilità umana. In un mondo impregnato di menzogna, scegliere di non adeguarsi può sembrare follia, come il personaggio di un prete cattolico, Ambrose, o come Shonny, che decide di abbandonare la follia urbana e di fare il contadino, anch’egli cattolico e fautore dell’importanza dell’identità in un mondo che presenta come ideale la promiscuità indistinta e indistinguibile.
Ma, se come dice Burgess, “essere sani di mente è uno svantaggio e un inconveniente se vivi in un mondo di pazzi”, l’amore per la verità spinge alcuni a non temere questo svantaggio, a non conformarsi, a non accettare il pensiero unico, il totalitarismo soft o duramente poliziesco. Burgess dunque, come e forse più di altri autori di anticipazione come Orwell o Huxley, è stato un visionario profeta che ha intravisto lucidamente le evoluzioni del pensiero e delle politiche postmoderne, e ci ha messo sapientemente in guardia.