Come spesso succede nei suoi interventi, anche in quello apparso su la Repubblica del 5 settembre con il titolo «La Chiesa e i precetti dei teocon», Ezio Mauro riesce ad arrivare al fondo del problema. Qual è il posto, e più ancora il senso, della religione «nel discorso pubblico e nel fatto politico»? Nel momento stesso in cui sembrerebbe che essa sia tornata in grande stile al centro del dibattito culturale e politico di tutte le società secolarizzate del mondo, bisogna chiedersi – cercando di non farsi prendere dal prevedibile gioco di ruolo della politica italiana, aggiungeremmo noi – di che cosa si è trattato veramente. Secondo Mauro in Italia si è trattato del trionfo di un cristianesimo che da un certo punto in poi (più o meno «negli anni di potere del Cardinal Ruini») non è stato più concepito – e di conseguenza non è stato più proposto – come un «fatto», ma si è ridotto sempre di più a una «precettistica» morale e ai principi della «dottrina sociale» da far valere come valori di riferimento di un’intera nazione e della stessa legislazione dello Stato laico. In tal modo il cattolicesimo sembra aver riconquistato il campo perduto in passato in una società sempre più secolarizzata, ma in realtà rimpicciolendo ideologicamente la sua proposta a strumento di egemonia politica.
Ma questa massiccia riconquista etico-politica della società mostrerebbe ora le sue profonde crepe. Nella presa di distanza del portavoce della Sala stampa vaticana da un editoriale di Lucetta Scaraffia sull’Osservatore Romano a proposito di un tema “estremo” come quello della morte cerebrale (che non sarebbe più il termine ultimo della vita del corpo), e nella riaffermazione da parte delle competenti autorità della Santa Sede che dopo la morte cerebrale accertata va considerato morto anche il corpo, tanto da esser prevista e addirittura raccomandata come atto di carità cristiana la donazione degli organi – in tutto questo Mauro vede il segno evidente che comincia a sciogliersi l’abbraccio mortale tra l’etica cattolica e la cultura di una destra politica in cerca di sostegni morali. Un abbraccio, a detta di Mauro, che risulterebbe dannoso soprattutto per la Chiesa, perché la ridurrebbe ad essere un semplice strumento del potere, non più «una religione delle persone», ma una «religione civile».
La domanda che dunque ne nasce è: ma il cristianesimo può mai essere ridotto a regole morali, senza perdere la sua natura, cioè quella di essere un «avvenimento»? Sembrerebbe quasi di sentire l’eco di quelle provocazioni che continua a lanciare Benedetto XVI, come quando nell’Enciclica “Deus caritas est” scrive che «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona [in maiuscolo!], che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva».
Mauro richiama a questo proposito la «profezia» di don Giussani, il quale (in anni di predominio assoluto del “cattolicesimo democratico” dentro e fuori la Chiesa, aggiungeremmo noi) aveva parlato di una «prevalenza dell’etica rispetto all’ontologia», cioè dell’enfasi posta sui comportamenti virtuosi rispetto al fatto nuovo di Cristo.
Ma è appunto la natura di questo “fatto”, cioè la portata reale di questa “ontologia” che viene prima di ogni ideologia e si smarca rispetto a tutti le versioni del moralismo ciò che bisogna capire. E non per retrocedere dall’analisi culturale e politica nel campo privato della meditazione spirituale, ma al contrario proprio per comprendere di più i fattori in gioco nella situazione culturale e politica odierna.
E qui Mauro, dopo aver colto il nocciolo della questione, sembra farselo scivolare di mano, leggendo a sua volta con le categorie della strategia politica il fenomeno “irriducibile” del cristianesimo. Negli ultimi anni la Chiesa avrebbe preteso di essere la coscienza morale dell’Italia e di esprimere con le norme che valgono solo per i credenti un ordine della natura umana non riconosciuto da chi non crede, finendo in preda a un potere politico sostanzialmente pagano. Al suo posto, pare di capire, si dovrebbe tornare a concepire il cristianesimo e la Chiesa come un avvenimento pastorale e spirituale, che porta certamente il suo contributo allo sviluppo della società, ma a patto di rinunciare alla sua pretesa di essere la risposta al bisogno degli uomini. Questa sarebbe un’insopportabile presunzione di verità, che di fatto è alternativa alla concezione delle democrazie moderne, secondo cui nel campo pubblico possono esserci solo verità relative, senza poter riconoscere (se non privatamente, s’intende) niente di oggettivamente vero.
Il discorso naturalmente potrebbe essere rovesciato, ricordando (come hanno fatto anche pensatori laici come Habermas) che l’unità del corpo sociale non solo non esclude, ma esige e anzi nasce dal riferimento a un ordine “indisponibile” all’arbitrio, come è quello della persona umana nei suoi bisogni concreti. E si potrebbe anche ricordare (con Böckenförde) che lo Stato moderno è segnato da questa strana situazione, di doversi reggere su principi che esso stesso non può fondare.
Forse però vale più la pena chiedersi cos’è che interessa veramente in questa disputa. Se la posta in gioco è il ribaltamento di un’immagine culturale o di un posizionamento politico, tutta la battaglia contro il ruinismo, i teo-con e la riduzione del cristianesimo a messaggio etico viene fatta in nome di un altro moralismo, di segno opposto. In tal caso si tratterebbe solo di cambiare i valori (al posto della tutela della vita e della famiglia, il perseguimento della pace e la costruzione del dialogo interculturale), ma la sostanza resterebbe non toccata.
E la sostanza è la vita irriducibile della persona umana, dell’“io”, una realtà che – bisogna riconoscerlo – senza l’avvenimento del cristianesimo (cioè di una Persona) e l’esperienza della Chiesa nel corso dei secoli sarebbe ridotta letteralmente a nulla, tanto è forte il tentativo di ogni potere di impadronirsene per omologarla. Ma questa non è solo una gloriosa eredità del cattolicesimo italiano: è piuttosto un grande compito che va ripreso dalle radici, e che nessuno può dare più per scontato. Questo faceva dire a don Giussani che la responsabilità o meglio la passione dominante per i cristiani è l’educazione, cioè la comunicazione di un’esperienza di umanità cambiata, che arriva a mutare anche il senso della politica, ad esempio facendo sì che essa non venga concepita più come l’orizzonte ultimo della vita degli uomini e della società.
Mi sembra dunque che il vero problema oggi non sia se i cattolici debbano o non debbano proporre i loro valori nella società (in una convivenza democratica penso che questo sia un dato e un diritto ormai acquisito), ma se essi si riaccorgano da dove nascono quei valori. Una strategia ecclesiastico-democratica non è capace di arginare la deriva moralistica che copre un cinismo sempre più diffuso e una gravissima perdita del gusto di vivere. Se il punto è un avvenimento, lasciamo che accada.