Non occorre essere laureati in biologia per rendersi conto di quanto l’origine della vita sia uno dei più grandi misteri offerti dalla natura all’umana investigazione. Gli scienziati che cercano di ricostruire eventi, fenomeni e circostanze che hanno consentito l’inizio del fenomeno-vita hanno messo in campo diversi tentativi teorici e pratici per arrivare a qualche tipo di comprensione. Dal famoso esperimento del “brodo primordiale” di Miller e Urey del 1953 in poi, si sono susseguiti altri studi teorici ed esperimenti che hanno cercato di svelare soprattutto come da un substrato non organico come era quello del mondo primordiale potessero essere emersi quelle che poi sarebbero diventate le molecole alla base della vita, e in particolare il DNA. Semplice? Per nulla.
Gli scienziati, nel loro investigare, hanno approfondito in modo quasi drammatico il mistero dell’origine: i problemi connessi alla spiegazione dell’emergere dei mattoncini sono moltissimi e gli scenari ipotizzati sono in diversi casi divergenti. Dal “brodo” di Miller si è passati così ad altre situazioni, in particolare si è pensato che l’origine possa essere stata in luoghi realmente inospitali, ad altissima acidità, temperatura e pressione (per esempio nei pressi delle bocche vulcaniche sottomarine); di fronte ad altri dubbi, si è pensato che in realtà l’origine dei mattoncini non sia terrestre, ma che qualche asteroide o cometa abbia portato in dono alla giovane Terra il prezioso carico, formatosi in qualche posto ancora più estremo delle profondità oceaniche. Ma i problemi si stratificano: anche una volta trovata la spiegazione all’origine degli aminoacidi-base (più o meno complessi), altri interrogativi si affacciano alla nostra comprensione.
Per esempio: quale ambiente abbia favorito una strutturazione in complessità crescente le nostre basi, il loro legarsi insieme in strutture articolate ed estese, come le proteine, l’RNA, il DNA e altre molecole. Questo è un punto delicato e fondamentale, in quanto le eccezionali proprietà delle molecole-base per gli organismi viventi derivano anche dalla loro complessa configurazione spaziale: il loro “ritorcersi” (in inglese “folding”) in modo non semplice genera il loro straordinario potere.
E’ un punto che chiama a raccolta per la sua comprensione non solo chimici e biologi, ma anche i fisici, che da anni ormai stanno utilizzando le conoscenze proprie della meccanica quantistica modellizzare le strutture delle grandi molecole e per rendere ragione delle loro conseguenti proprietà chimico-fisiche. Per esempio, è un dato ormai assodato che il folding permette alle proteine di assumere una forma globulare attraverso la quale possono interagire con le altre, generare specifiche reazioni chimiche e adattarsi per permettere agli organismi di trarre vantaggio dall’ambiente circostante.
La novità dell’ultim’ora in questo campo di studi arriva dalla Florida State University: un team di biologi guidato dal prof. Michael Blaber, biologo strutturalista, potrebbe portare gli scienziati un passo più vicino alla comprensione dell’emergere della vita sulla Terra. Dopo 17 anni di affinamento delle tecniche di investigazione e tre anni di studio effettivo sui modelli, Blaber ha provato che i 10 aminoacidi ritenuti già esistenti sulla Terra circa 4 miliardi di anni fa erano in grado di formare proteine in grado di ritorcersi in un ambiente ad alta salinità. Tali proteine sarebbero state in grado di realizzare attività metabolica per i primi organismi viventi emersi fra 3,9 e 3,5 miliardi di anni.
E’ interessante ascoltare cosa dice Blaber: «il paradigma corrente è che prima si formò l’RNA, e in un ambiente ad alta temperatura. I nostri dati invece sono molto più in favore del punto di vista per cui per prime si sono organizzate le proteine e in un ambiente alofilo (cioè ad alta salinità, ndr)». I risultati di Blaber fanno cioè ritenere che un insieme di aminoacidi prodotti da semplici processi chimici contengano le informazioni necessarie per produrre proteine complesse: è il punto di vista “protein-first”, che si oppone al “RNA-first”.
Ma non basta: il punto di vista dominante prevede che l’ambiente dell’origine sia stato ad alta temperatura, mentre le simulazioni di Blaber dicono altro: «quello alofilo è tradizionalmente stato considerato come un ambiente al quale la vita si è dovuta adattare, e non come un ambiente potenzialmente di origine. Il nostro studio della configurazione e del folding degli aminoacidi e delle proteine prebiotici suggerisce il contrario. Ci sono numerose nicchie nelle quali la vita può evolvere -procede Blaber-, per esempio, gli estremofili che esistono in ambienti caldissimi, ad alta pressione, molto acidi e ad altissima salinità. Per esistere in tali ambienti, è essenziale per le proteine sapersi adattare a tali condizioni. In altre parole, il loro folding deve essere efficiente».
Sappiamo che il corpo umano utilizza 20 comuni aminoacidi per generare tutte le sue proteine: dieci di essi sono stati generati per via biochimica, dieci attraverso reazioni chimiche fuori da qualsiasi contesto biologico. Utilizzando una tecnica chiamata “top-down symmetric deconstruction”, Blaber è riuscito a identificare dei peptidi, cioè piccole catene di aminoacidi, capaci di auto-organizzarsi assemblandosi spontaneamente specifiche architetture proteiche. Nel suo lavoro si è chiesto se questi mattoncini possano comporsi di soli 10 aminoacidi e continuare a strutturarsi: il suo team ha trovato che la il folding in proteine è possibile già da 12 aminoacidi.
Se la teoria di Blaber funziona, gli scienziati potrebbero dover rivedere dove cercare le evidenze nella ricerca di dove e come la vita ha avuto inizio. «Piuttosto che una nicchia curiosa dove si è evoluta, l’ambiente alofilo potrebbe ora prendere il centro della scena come la probabile location per aspetti-chiave dell’abiogenesi. Allo stesso modo, il ruolo della formazione delle proteine sale di importanza nei primi passi dell’inizio della vita sulla Terra».