MOSCA – È una cosa di pochi giorni fa: passeggiando di sera sulla piazza Rossa in mezzo a tanti moscoviti, ho sentito un ragazzino – dieci-dodici anni – chiedere a sua madre «perché lì c’è scritto Lenin?». Quel «lì» intendeva il celeberrimo mausoleo dove riposa la mummia di cui tutti, credo, abbiamo sentito parlare; che un giovane russo non ne sapesse niente suona incredibile, quasi indecente, se non altro per il ruolo fatale che Lenin ha avuto in questo paese.
Eppure, mentre tutto il mondo ricorda con toni seri i 90 anni della dipartita di Vladimir Il’ic Lenin, sulla piazza Rossa hanno appena tolto di mezzo l’ingombrante baule di Vuitton, piazzato lì dall’omonima ditta per pubblicizzarsi e celebrare i 120 anni dei vicini Magazzini Gum, ma che con la sua mole ostruiva completamente il paesaggio, mausoleo compreso. Uno sfregio non voluto, certamente, ma forse per questo ancora più significativo: i 120 anni dei Gum hanno eclissato i 90 dell’autore del rivolgimento epocale che ha cambiato i destini della Russia; Vladimir Il’ic affonda nell’insignificanza, sopraffatto dalle borsette francesi.
Questo può voler dire che l’apporto costruttivo dato da Lenin a questo paese si è dimostrato alla fine nullo, e niente è rimasto della sua opera se non l’accanita nostalgia di alcuni. Ma c’è anche di più.
Dietro a tanta distrazione, a un disinteresse così kitsch, a un’ignoranza di tali proporzioni, sta una rimozione di proporzioni ancora maggiori. Infatti non è possibile che si sia dissolta come nebbia al sole la figura del «padre della rivoluzione», del «santo dei santi» mummificato perché fosse «sempre con noi» per eterna venerazione, o viceversa di colui che ha la maggiore responsabilità storica per la tragedia della rivoluzione, stalinismo compreso. Ovvero, è possibile soltanto se c’è la precisa volontà di dimenticare, di non sapere. Invece di peana e di esecrazioni, il silenzio.
Questo silenzio e questa ignoranza gridano un disagio profondo, parlano di conti che non sono stati fatti, di ferite ancora aperte, di una coscienza personale e civile che ha sospeso il giudizio e vive facendo finta di niente, volendo credere che il passato non occorra per vivere oggi.
Se c’è una cosa che la propaganda sovietica ha ben inculcato nelle menti è il disinteresse se non il disprezzo per il passato, è la memoria corta e la sfiducia nel bene. Così come nella coscienza dei cittadini sovietici la memoria si era assottigliata fino ad escludere qualsiasi valore e tradizione prerivoluzionaria, oggi si fa lo stesso col passato recente e sovietico, che viene soppresso a forza; ma il passato vive dentro la gente, nei pensieri non detti e nelle reazioni quotidiane. Non c’è chi non se ne accorga, anche se la gente si comporta come se non avesse bisogno di niente, di credere in niente.
E invece ha bisogno di credere, tant’è vero che laddove la memoria storica tace, il vuoto viene riempito dai suoi simulacri, dai nuovi miti che affollano lo spazio mediatico, dipingendo un fiabesco impero zarista, una fiabesca ortodossia, un fiabesco mondo sovietico. A chi invece queste favole non piacciono restano il business, l’arte di vivere e la scalata al successo, ma nudi e crudi, senza troppi fronzoli morali perché della morale, tradizionale o tantomeno sovietica, non è rimasta pietra su pietra. Così nella mente, soprattutto dei giovani, cozzano e si sovrappongono idee disparate e contraddittorie: la nostalgia del comunismo, il putinismo, la smania dei soldi, il nazionalismo, ma tutto senza motivi, senza radici, senza un bandolo. Senza un giudizio ragionevole.
Lenin, in fondo, è il segno di un’assenza, l’assenza di un motivo fondante; lui lo è stato a suo tempo ma ora non lo è più, e anche se improvvisamente qualcuno al governo decidesse di riesumarlo, sarebbe anche questo un recupero senza radici e senza futuro. Ci vuole altro per riaprire il discorso con il passato, col mausoleo sulla piazza Rossa. Lo hanno capito in diversi, in Russia, da Mosca a Vladivostok, che il primo passo è ripercorrere tutto il cammino che li separa dai fatti, è immedesimarsi, recuperare le tragedie familiari tenute nascoste. Come sta facendo Memorial, come fanno altri che organizzano musei, che girano film o stampano memorie affinché il cuore di ciascuno possa fare esperienza, il più possibile, del passato, in modo da poter comprendere e infine giudicare. La vedova di una vittima di Stalin, Nadezda Mandel’stam, lo aveva intuito già negli anni 60: «I giovani, dicono, non si interessano più di queste cose, e bisogna pensare ai giovani. Io, invece, insisto nel dire che non c’è limite: bisogna parlare sempre delle stesse cose finché non venga a galla ogni sventura e ogni lacrima, finché non diventino chiare le ragioni di ciò che è stato e continua ad essere».