Ha quasi novant’anni, uno spirito prontissimo, una memoria di ferro, un’enorme gioia di vivere e uno sguardo positivo su tutte le cose, lui, Eugenio Corti, che, tornato dalla ritirata di Russia, si arruolò volontario nel Regio Esercito per cacciare i nazisti dalla sua patria. Scrittore letto e tradotto in Europa, Russia e Stati Uniti, è famoso soprattutto per la sua opera principale, Il Cavallo Rosso. Oggi, a pochi giorni dall’anniversario dell’8 settembre, ci racconta il proprio pensiero sia in merito agli immancabili e numerosi dibattiti sorti per l’occasione sia sui nuovi rischi ideologici che attraversano questa nuova Europa.
Professor Corti, perché la sua opera risulta ancora essere così straordinariamente attuale?
Ho ambientato il mio romanzo più importante nella parte principale del XX secolo, che è il mio secolo. Le vicende narrate occupano uno spazio di circa un terzo del periodo, ossia dal ’40 al ’75, anno del referendum sul divorzio che ha segnato un grande cambiamento legislativo per quel che concerne il costume in Italia. Ma più ampiamente, nel tempo, si sono visti i risultati di una tendenza ideologica da me descritta. Il mio lavoro avrebbe dovuto essere addirittura, secondo il critico inglese Richard Brown, il “romanzo spartiacque” per la giusta comprensione del XX secolo.
Qual è la chiave di lettura che ha conferito questo eccezionale taglio al suo romanzo?
Ne Il Cavallo Rosso descrivo le cose secondo la concezione di Agostino d’Ippona il quale afferma che nella costruzione delle società c’è un alternarsi continuo della “città terrena” e della “città di Dio”.
In sostanza tutto il gioco della storia, secondo Agostino, si alterna tra chi nell’organizzazione della vita degli uomini fa spazio a Dio e chi no. Chi non fa spazio a Dio, anche se le sue intenzioni sono buone, segue il Principe di questo mondo, il Demonio.
Ho visto nel ventesimo secolo, nel mio secolo, perché quando questo è finito compivo 80 anni, la riprova di questa concezione. L’esperienza centrale di quel secolo è stata segnata dal tentativo dell’affermazione di due città terrene e contrapposte: il nazismo da una parte e il comunismo dall’altra. Si tratta di due concezioni assolutamente imparentate fra di loro, perché al fondo derivavano dagli stessi principi teorici.
Quindi si può dire che il suo “vate” è niente meno che Sant’Agostino. Ma nella sua vita può dire di aver fatto esperienza anche della “città celeste”?
Sì, il ritorno della “città celeste” l’ho visto. Dopo la guerra la gente era macerata interiormente e affidò la ricostruzione a uomini politici di impostazione cristiana, Adenauer, ma soprattutto Schuman e De Gasperi. Furono i principali indirizzatori politici del dopoguerra, che hanno dato il via alla ricostruzione non solo materiale, ma anche spirituale dell’Europa. Con gli orrori della guerra il livello morale dell’uomo si era stato molto abbassato, era stata raggiunta un’abiezione indescrivibile con conseguenze sociali inenarrabili. Questi politici avviarono l’Europa futura. E, a ben vedere, la buona radice di questa Europa la si scorge nel fatto che ha trascorso il più lungo periodo della propria storia senza una guerra. Ma adesso ha preso piede, purtroppo, la costruzione di una città terrena, sempre di natura ideologica, sebbene più nascosta e strisciante, dove la droga, intesa in molti sensi, sostituisce l’ideale e l’aborto rappresenta le stesse stragi di natura eugenetica protratte dalle ideologie del secolo passato.
Come mai, soprattutto nei primi tempi, si scontrò e continua a imbattersi contro così tante difficoltà per ottenere la pubblicazione dei suoi scritti?
I miei libri non sono accettati dalla cultura dominante attuale, perché io ne faccio una critica molto forte. Accuso il mondo di oggi, attraverso i miei scritti, di essere l’erede di quello passato. E accuso gran parte di coloro che furono miei contemporanei di indifferenza nei confronti di quanto accadeva al di là della cortina di ferro. Se in un certo qual modo sono una vittima però, per fortuna, non mi è capitata la stessa sorte di coloro che vivevano sotto il sistema leninista dell’eliminazione fisica. Adesso la morte è “gramsciana”, è una morte sociale, vengo escluso dalla grande stampa, dai premi letterari, sono tagliato fuori e isolato in quel modo. Ringraziando il Cielo a noi “dissidenti” non ci ammazzano più fisicamente, ma cercano di soffocarci. Fortunatamente un po’ di efficacia si ha lo stesso perché i lettori ci sono e ancora fanno traduzioni e vendono i miei libri.
Qual è la sua opinione in merito ai recenti dibattiti sull’8 settembre e, più in generale, sul dopoguerra?
Adesso finalmente vedo in corso giusti episodi di revisionismo. Secondo me sarebbe opportuna anche un’analisi approfondita del comportamento di molti fascisti verso gli ebrei. Non che voglia rinnegare le leggi razziali in Italia o rivalutare gli orrori del fascismo, ma non per questo paragonerei l’odio antisemita, tipico del nazionalsocialismo, ai fondamenti ideologici fascisti, che con la razza avevano ben poco a che fare. Semmai, si rifacevano al mito di Roma, un impero, si sa, multietnico per natura.
Quando occupammo la Francia del sud, un piccolissimo territorio perché nell’occasione, come in quasi tutta la seconda guerra mondiale, non facemmo una grande figura sotto il profilo militare, furono migliaia gli ebrei francesi a trasferirsi sotto il nostro controllo. Questo perché non ci interessava spedirli nei campi di concentramento. Ma, al di là di questo giudizio, la mia opinione è che nei dibattiti storici attuali sia ancora forte la spinta ideologica da entrambe le parti, il che lascia poco spazio per la piena comprensione di quanto accadde e dell’atteggiamento di alcuni protagonisti dell’epoca.
E che cosa ne pensa del monopolio culturale che i partigiani hanno effettuato sulla Resistenza e la liberazione, ignorando, ad esempio, i soldati italiani che si batterono a fianco degli alleati?
Questa invece è davvero una sconcezza penosa! I soldati italiani che hanno combattuto contro i tedeschi e i fascisti in Italia sono stati numerosi quanto i partigiani. Anzi questi ultimi cominciarono ad essere un migliaio, poi si accrebbero e, con la liberazione, tutti si proclamarono partigiani.
La storia dei soldati del re, soldati italiani a sud che liberarono il nord, è stata totalmente ignorata per fare posto al mito dei partigiani. È un’ingiustizia vera e propria, perché facemmo le stesse ore di combattimento e subimmo le stesse perdite, se non di più. Inoltre tutti pensano ai soldati come dei professionisti obbligati a combattere. In quel caso invece si trattò di una libera scelta fatta da migliaia di giovani dopo l’armistizio dell’8 settembre. Non è che fossimo più buoni, ma semplicemente avevamo l’idea che bisognava tornare a casa e per farlo dovevamo cacciare via i tedeschi. Ma il nostro modo di agire e di pensare reincarnava il modo di sentire di tutta la nazione. Ogni volta che la gente ci accoglieva ci chiamavano i “nostri”, i veri “nostri”. Eravamo diversi dai tedeschi e dagli alleati. Quanto accadde poi in Italia è simile a quello che avvenne con partigiani greci. Ossia, dopo la guerra, i partigiani occuparono tutte le posizioni politiche e sociali divenendo i padroni della vita civile di ogni paese.
Col passare degli anni crebbe il risentimento dei soldati che combatterono per la libertà e che videro svilupparsi una mentalità che acclamava solo una parte di coloro che si erano battuti.
Più o meno lo stesso risentimento dei reduci del Vietnam rispetto ai militanti che fecero il ’68 rimanendosene comodamente in America?
Esattamente lo stesso tipo di ingiustizia e lo stesso tipo di rabbia. Il mondo va avanti così, funziona sempre in questo modo, anche se il bene e la verità alla lunga prevalgono.
Tutta questa realtà l’ho descritta nei miei romanzi. E Il Cavallo Rosso finisce negli anni settanta proprio allo scopo di descrivere l’insorgere di questo nuovo tipo di ideologia moderna di cui ho parlato prima. Ci fu il miracolo economico, ci furono grandi segnali di ripresa in Italia e in tutto il mondo, ma già allora cominciavano a profilarsi questi altri tipi di discriminazione verso quei modi giusti di intendere la vita che anticipavano questa epoca.