Il pensiero di Hegel, snodo fondamentale del pensiero dell’Occidente, suscita facilmente delle resistenze. La verità di cui egli parla non è una verità rassicurante e appropriabile: è una verità che è generata, che si fa in una storia. La storia si struttura in un prima e in un poi. Il prima e il poi non costituiscono una semplice successione, ma un movimento di cui non dominiamo completamente l’origine e la legge.
Hegel ha posto l’accento, sulla scia di S. Agostino, sul carattere enigmatico del tempo. Nell’XI libro delle Confessioni S. Agostino dice di credere di sapere che cosa sia il tempo, ma, laddove ne fosse interrogato, si troverebbe nel massimo imbarazzo a fornire delle risposte. Infatti il prima, rispetto al presente, non è più, salvo nei penetrali della memoria, il poi rispetto al presente, non è ancora, salvo che nell’aspettativa e/o nella immaginazione. Quanto allo stesso presente esso è imprendibile, perché, appena cerchiamo di afferrarlo, è già diventato un passato.
Derrida, il grande filosofo francese scomparso alcuni anni fa, ci ha restituito (Il tempo degli addii, Mimesis, Milano 2006) una lettura di Hegel lontana dai soliti cliché. Derrida commenta il libro di una sua discepola, Catherine Malabou, intitolato: L’avenir de Hegel (Vrin, 1998) riprendendo e rilanciando questa idea: Hegel ha un avvenire perché è stato un grande pensatore dell’avvenire.
L’avvenire, si badi bene, non è il futuro. Il futuro è ciò che non è ancora e lo concepiamo come un orizzonte davanti a noi, vuoto, ignoto, che può suscitare la nostre speranza o che può anche farci paura. L’avvenire è un futuro che si radica nella nostra memoria, carico dei nostri desideri, ma soprattutto tale da coinvolgerci personalmente, nella nostra singolarità, come Hegel non cessa di insegnare. Il tempo dell’avvenire è il futuro anteriore, questo tempo strano, che esprime la massima enigmaticità del tempo. Se diciamo: “Quando sarò stato appagato”, “quando sarò stato sconfitto”, che cosa in realtà diciamo, dove ci collochiamo? Il futuro non esiste, finché non diventa presente: è fatto di nulla. Ma nel futuro anteriore noi ci collochiamo: il futuro anteriore può ospitare il semplice futuro, lo contiene, lo può addirittura giudicare (“quando sarò stato appagato”) senza per questo esistere!
Ma in questo tempo che è il futuro anteriore, che sembra non avere nulla di temporale nel senso di ciò che scorre, di ciò che passa, noi possiamo collocarci come abbracciando il tempo, come guardandolo dal di fuori. D’altra parte il futuro anteriore scatta a partire da due tipi di nulla: il nulla dell’adesso, che finisce nel passato e il nulla del futuro che non è ancora. E’ anche vero che se non avessimo la capacità di immaginarci nel futuro, se non avessimo la capacità di un futuro anteriore, questa sorta di eccesso sul nostro stesso futuro, saremmo disperati, murati necessariamente nel nostro presente. Da tale presente potremmo uscire solo come trascinati e a nostra insaputa.
Il futuro anteriore è quell’aspetto della nostra ragione che è in grado di accogliere l’avvenimento. L’avvenimento non è un crudo fatto, imprevisto, uno sbattere il naso contro qualcosa di impreventivabile, doloroso o felice che sia. L’avvenimento è ciò che può essere domandato, accolto o rifiutato da un io che se ne fa coinvolgere, che ne può essere cambiato, nel bene o nel male. L’avvenimento è pensabile e vivibile solo in un sì precedente, non in senso cronologico, in una posizione che sia in grado di riconoscerlo, nel rischio e senza garanzia.
Il futuro anteriore e l’avvenimento, in una parola l’avvenire, implicano la fede. Si tratta di una fede laica, ma fede, fiducia, fidarsi, senza di cui la ragione dell’essere umano non può vivere, salvo voler consistere in un programma tecnocratico e/o tecnoscientifico in cui l’essere umano possa funzionare come rotella. La rotella non ha dubbi, scelte, previsioni, speranze, amore.
Il pensiero che pensa l’avvenire pensa qualcosa che non vede, che non vede venire, come si esprime Derrida. È un pensiero difficile, “speculativo”, ma la sua difficoltà non è tanto di tipo filosofico. E’ una difficoltà che deriva dalla struttura stessa dell’avvenire, che implica un desiderio e una speranza non garantiti ed implica quindi anche lo svanire, il commiato, la morte.
D’altra parte la società odierna, frutto dell’estrema fase dell’imperialismo capitalista, è una società costruita sul programma di dominio dell’altro, anche se ammantato con parole come uguaglianza, comunicazione, globalità. Un pensiero e una disposizione all’avvenire come quella sopra evocata espone, invece, alla mancanza e al rischio intollerabile della libertà.
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L’articolo anticipa la relazione dell’autore in occasione dell’incontro “Il tempo degli addii”, terzo appuntamento (6 marzo) di un ciclo di cinque letture organizzate da Prologos. Il ciclo ha per titolo “Derrida lettore dei filosofi. L’evento del testo”. Dettagli e date su www.prologos.it