Dante rimane al centro della nostra attenzione, in questo arco di tempo tra il 2015 (settecentocinquanta anni dalla nascita) e il 2021 (settimo centenario della morte); e forse non ha nemmeno bisogno degli anniversari per catturare la curiosità, per riaccendere la passione. Iniziative editoriali di rilievo ne pubblicano le opere, dotandole di cospicue migliorie filologiche, di commenti attrezzati e aggiornati (basti pensare all’edizione delle Opere diretta da Marco Santagata per i Meridiani Mondadori e alla Nuova Edizione Commentata delle Opere di Dante coordinata da Enrico Malato per la Salerno Editrice); l’attività critica non conosce pause, in Italia e fuori d’Italia; si costituiscono nuovi centri di studio (risale a qualche mese fa la fondazione di una Société Dantesque de France, su iniziativa di Bruno Pinchard); il dibattito è alimentato da lecturae Dantis, convegni, seminari, scuole estive. Un’occasione recente di bilancio è stata la giornata di studio promossa in marzo, a Bologna, dall’Adi (l’Associazione degli Italianisti Italiani). A tema: “Leggere, studiare e insegnare Dante oggi”. E si è discusso di istituzioni e progetti, di didattica dantesca nella scuola e nell’università, di prospettive della ricerca nel nostro paese e all’estero.
A proposito di ricerca, non c’è dubbio che uno dei nodi cruciali dell’odierno interrogarsi su Dante sia quello del profetismo (se ne è parlato, fra le altre cose, anche a Bologna). La Commedia sembra porsi come frutto di una vera e propria visione, concessa eccezionalmente da Dio a soccorso e conforto di un’umanità in pericolo. È in questi termini che dobbiamo riceverla?
A caldeggiare il profilo di un Dante profeta era stato Bruno Nardi, in dura polemica con l’arguto scetticismo di Benedetto Croce. Secondo Nardi, che aveva il coraggio di posizioni forti, Dante era intimamente convinto di aver ricevuto una rivelazione dall’alto. Di una convinzione siffatta, sottolineava questo studioso, il lettore moderno può e deve prendere atto, quale che sia il suo giudizio sull’oggettiva consistenza e natura di “esperienze” del genere. La Commedia, allora, come l’Apocalisse? E il pellegrino dei tre regni come l’apostolo Giovanni?
La questione sembrava definitivamente chiusa in seguito a un intervento di Giorgio Petrocchi che, a metà degli anni 60, aveva emesso una diagnosi perentoria: “Dante non è un mistico stricto sensu ma è un letterato che si attribuisce, per comodità di progetto retorico e per amore di un genere letterario in uso a quei tempi, un’esperienza che Dio non gli ha mai elargito”. Eppure, in anni recenti, i giochi si sono riaperti. Alcuni protagonisti del dantismo attuale hanno fatto concessioni all’ipotesi della veridicità, o quanto meno hanno avvalorato una soggettiva coscienza dantesca di un contatto col divino; magari temperando l’estremismo di Nardi e qualificando la Commedia come misto di verità e di invenzione.
Quest’ultima è la soluzione proposta da una studiosa nordamericana, Teodolinda Barolini, in saggi e volumi pubblicati a partire dagli anni 90. A detta della Barolini, “Dante usa consapevolmente i mezzi della finzione letteraria al servizio di una visione che riteneva vera, creando in questo modo un ibrido che definiva un ver c’ha faccia di menzogna“.
Non dobbiamo dimenticarlo: Dante “profeta” nasce all’inizio dell’Ottocento, a opera di un lettore d’eccezione come Ugo Foscolo. In un fondamentale contributo critico redatto negli ultimi anni della sua vita, Foscolo profila Dante quale riformatore religioso, determinato a presentare il suo poema come vero resoconto dell’aldilà (fosse o no intimamente persuaso di aver ricevuto una rivelazione). Tutt’altro che “deviante”, come talvolta è stata definita, la tesi foscoliana fiorisce non casualmente su un terreno moderno e post-illuministico. La modernità alimenta il progetto ambizioso di spodestare la religione; e promuove questo colpo di stato avvalendosi della cultura e della letteratura. Con le figure del sacerdote e del teologo, figure consacrate e istituzionali, entrano in concorrenza il filosofo (nel secolo XVIII) e il poeta ispirato (in età romantica). Ebbene, chi si assume la responsabilità di creare un vuoto, al tempo stesso si candida a colmarlo; così il poeta ottocentesco si pone come mistico e come vate, offrendo una religiosità alternativa per ammortizzare l’ipoteca della secolarizzazione. Foscolo ha di se stesso questa coscienza; non sorprende che scorga in Dante un riformatore della società, che gli faccia indossare vesti profetiche.
Sottoscritta da Nardi, rilanciata, sia pure con maggiore prudenza, da un certo fronte della critica attuale, l’interpretazione di Dante in chiave profetica mostra peraltro, ai nostri giorni, segni forse irreversibili di logoramento. Nella sua recente biografia (Dante. Il romanzo della sua vita), Marco Santagata non ha difficoltà a riconoscere che Dante, nella Commedia, si proclama profeta, e più di una volta: “profeta non perché ha il privilegio di leggere nel futuro e di predire gli eventi ma perché può riferire ai vivi i vaticini ascoltati nel mondo ultraterreno”. Eppure, lo stesso Santagata, ricostruendo in maniera puntuale (e, se necessario, impietosa) il rapporto fra la carriera esistenziale di Dante e la redazione del poema sacro (scritto mentre si avvicendavano continui colpi di scena in un panorama politico convulso), consuma senza esitare una demistificazione. L’esule desideroso di rientrare a Firenze e continuamente in bilico tra speranza e delusione, mentre fazioni locali e grandi potenze si studiano, si aggrediscono, scendono a patti, cercano rivincite, sulla scena tormentata di un’Italia perennemente in crisi, questo sradicato senza pace oscilla, muta più volte schieramento, cerca come può di ricollocarsi. Per contemplare, infine, il fallimento di non poche aspirazioni personali e di non indifferenti progetti socio-politici.
A Dante viene sottratto, in questo modo, il piedistallo su cui lo avevano collocato i romantici. L’aura che lo circondava nell’Ottocento, e non solo nell’Ottocento, subisce una sconsacrazione. Per Santagata, colui che si proclamava apertamente profeta, in un’ambiziosa auto-investitura, reagiva in realtà a un profondo disagio, rovesciando “una sensazione di inadeguatezza in una persino spropositata affermazione di sé”. E la volontà dantesca di ribaltare la realtà proiettandosi nel futuro era in fondo “un modo di sfuggire la realtà”.
Già Guglielmo Gorni, qualche anno fa, aveva denunciato tradizionali impostazioni agiografiche, fino a intitolare un suo volume d’insieme — sintesi di una ricca serie di sondaggi — Dante. Storia di un visionario. Inevitabile, per il lettore non ingenuo, pensare a un altro titolo, non proprio lusinghiero; quello con cui Kant introduceva la demolizione di un pensatore avventato quale Emanuel Swedenborg, il “mistico” svedese certo di essere in contatto con gli spiriti. Nella sua fantasmagorica teosofia, Swedenborg aveva attinto a piene mani dalle visioni ricevute. O forse, dalle allucinazioni? Kant non nutriva dubbi, e il suo scritto — I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica — rimane un godibile esempio di polemica ben assestata. Nessuno, naturalmente, può credere che l’autore della Commedia sia davvero paragonabile ai teosofi moderni, e il primo a non crederlo era lo stesso Gorni. Per una filologia non agiografica, si tratta semmai di delimitare, in maniera rigorosa, le falde di utopismo presenti nell’immagine che Dante elabora del futuro. Il verticalismo dantesco, proteso verso l’eterno, si unisce infatti con una spinta orizzontale e prospettica rivolta all’avvenire, ed è appunto sul piano del preventivo storico, della decifrazione dell’imminenza che si gioca il profetismo della Commedia, tingendosi di colori utopici nei suoi annunci di una prossima armonia terrena, sotto l’egida dell’Impero universale.
Ma a questo punto si fa strada un nuovo problema. Diremo che la poesia di Dante è viva a dispetto della sua ideologia, in parte estinta o in via d’estinzione? Derubricato il mito (non meno ottocentesco che medievale) del poeta che inabissa civiltà scadute e addita cieli e terra nuovi, dobbiamo comunque fare i conti con la pretesa della poesia di interrogare i nostri assetti mentali, di rivoluzionare la grammatica delle nostre convinzioni; e magari, di incidere sulle nostre aspettative, o sulla nostra assenza di aspettative. L’opera dantesca è un caso particolarmente clamoroso di una sfida presente in ogni frammento poetico. Da questa provocazione non riusciamo facilmente a liberarci, per fortuna. Ma è doveroso ripensarne la natura, la portata, le possibilità, i limiti. Anche a partire dalla Commedia di Dante; che non si lascia imprigionare in approcci riduttivi.