La bestia e il sovrano è il titolo dell’ultimo dei seminari tenuti dal grande filosofo francese Jacques Derrida, due anni prima della sua morte, avvenuta nel 2004. La casa editrice Galilée ne ha curato l’edizione, in contemporanea con la traduzione italiana, pubblicata da Jaca Book. Questo progetto proseguirà coprendo l’arco di ben trenta titoli, corrispondenti ad altrettanti anni del lungo e fecondo insegnamento derridiano.
Già questo curioso titolo fa enigma, volendo aprire su uno scenario politico, sullo scenario di una discussione politica davvero sui generis. Derrida infatti, come è il suo stile di lavoro, non fornisce punti di vista meramente teorici o analisi, non apre, come spesso oggi avviene, interminabili cahiers de doléances sulle impasses e sui limiti di tali punti di vista, spesso in conflitto tra loro. Come tutti i grandi del pensiero, da Agostino ad Hegel, Derrida non è interessato generalmente a un “punto di vista”, ad una “visione del mondo”. Egli crede piuttosto all’appartenenza a un discorso, al rigore di un linguaggio.
Che cosa vuol dunque dire rigore? Vuol dire confrontarsi con l’origine di ciò che si dice, includere sé in quel che si dice, includere nel discorso il proprio rapporto con il discorso. Si tratta di un’idea di rigore lontana dall’abito troppo stretto delle razionalità contemporanee, spesso asettiche e “cosalizzanti”.
Che l’uomo – secondo la dottrina di Aristotele – sia animale politico è una tesi concepita da Derrida in un modo che diverge da quello dell’antico pensatore greco, come anche dalle odierne bio-politiche, zoo-politiche. È certamente vero che l’uomo è un animale cui si aggiunge la città, la polis. Ma la questione sta nel modo di concepire proprio la politicità di questa polis. Anche se oggi la nozione di politica si allarga ad ospitare la vita, l’immaginario perfino inconscio e simbolico, tuttavia la questione del chi, del soggetto dell’atto politico, rimane avvolta in una censura. Uomo e politico sono concetti non solo contigui ed intersecantisi, ma anche – in altro senso – irriducibili.
Secondo il filosofo francese non affrontare, tacere, il problema dell’animale, il problema dell’animale per esempio per il corpo dell’uomo, significa mantenere un’impostura ideologica: che cos’è il corpo dell’uomo come vivente se la sua spoglia “animale” è riducibile a supporto di funzioni “superiori”? L’animale viene oggi censurato, esorcizzato come mera realtà chimico-meccanica, stabilendosi poi – a seconda dei punti di vista – l’identità di natura fra uomo e animale, o, al rovescio, la superiorità dell’essere umano. In entrambi i casi l’animale è visto come una realtà non in rapporto con l’uomo, oggettivabile fuori di lui, salvo che con discorsi – proiettivi e sospetti di ideologia – che difendono i diritti dell’animale.
Derrida prende una via diversa da quella del diritto. Si interroga sulla bestia, sul bestiale: bête in francese – come del resto in italiano – vuol dire sia “bestia” sia “stupido”. Ma la bestialità (“sei una bestia”) è già un discorso umano. Paul Valéry diceva, trasgressivamente ed ironicamente: «La bêtise non è il mio forte», giocando appunto sulla polisemia del termine, che significa anche “errore”. Derrida nella sua lettura commenta questa affermazione, notando che l’accento è sul mio, il mio forte. La mia forza, è in realtà la padronanza che mi ritrovo, che mi suppongo: questo implica che mia sia la bêtise. Mio è infatti in rapporto a tuo, mio è l’irrompere dell’alterità, del non identico, in rapporto a una supposta padronanza che l’io avrebbe di sé, e che non ha, se non nella forma della bêtise.
Che cosa vuol dire infatti essere bêtes, essere stupidi? È stupido – bestia – l’uomo, o è bestia la bestia? E perché mai la bestia sarebbe bête? Con quella bestia che è l’uomo, si apre dunque un abisso di rimandi. In questo senso, invece che sull’auto-coscienza ci si potrebbe interrogare su auto-stupidità.
Chi è allora in grado di dire “io”? Certo, si può pur fare questa affermazione. Mille frasi del nostro lessico quotidiano affermano che «io…». Ma che cosa, in realtà, diciamo con “io”? Da notare che l’italiano, a differenza che il francese, volentieri lo sottintende il soggetto specie nella prima persona.
Che ne è allora della tradizionale definizione aristotelica? L’uomo come animale politico? Da Derrida viene interrogata e messa in questione: non che sia sbagliata, ma che significa davvero? Si tratta di sondare la zona di origine del politico come tale, non senza ricadute sull’animale: c’è una differenza più raffinata fra uomo e animale, più raffinata che la semplice congiunzione animale-politico, differenza che include per lo meno un diaframma, dell’inconscio. Freud non diceva – alla fine del suo immenso lavoro – che governare è una delle tre professioni impossibili?
La differenza tra uomo e animale sta allora nell’impatto con la sovranità, con l’idea di proprio (“la vita è mia”), intesa come un possesso cosciente, un dominio che l’io può avere su di sé, un possesso come politica: il rapporto con la polis, normalmente pensato come il ritagliarsi di un possesso, di un mio, senza avvertire, di questo mio, l’ambiguità di cui dicevo.
L’io non è dunque sovrano. Dire: “io sono sovrano” è essere bête. L’io si nasconde in un luogo, differente e furtivo nel rapporto fra l’uomo e la bestia, che è il ricevere. La forma del ricevere è il nome della libertà.
Il 12 febbraio prossimo – presso la sede dell’Istituto ICLeS a Milano – si terrà una Giornata di Studio curata dall’Associazione Prologos, gruppo per scoprire, interrogare, insegnare la filosofia, su La bestia e il sovrano, primo volume dei Seminari di Jacques Derrida, testo recentemente uscito per i tipi della Jaca Book.