Non sono gli studenti (la loro presunta indifferenza ad alcuni passaggi storici del nostro tempo) il problema dell’interesse scemante o declinante per l’insegnamento della storia, ma gli insegnanti. Non solo insegnanti, ma chi li forma, cioè la case editrici.
Queste ultime (penso a Il Mulino perché scrivo da Bologna) denunciano apertamente la crisi del manuale. Il che vuol dire la crisi di una metodo di insegnamento che aveva per riferimento un’autorità sovrana, presupposta, indiscutibile come la narrazione ordinata degli eventi storici che si dispiegava sulla base dei pali e paletti dei programmi ministeriali.
Mi pare positiva la rivolta degli studenti e dei docenti che ilsussidiario.net ha raccolto. Non c’è nulla di male nel fatto che le scolaresche non sappiano chi era Aldo Moro, la Cassa per il Mezzogiorno, la Costituente, eccettera. Quando volessero informarsi, possono ricorrere alle incursioni su Internet, o sul canale televisivo dedicato alla storia del prof. Bernardini. D’altra parte, che cosa fanno i medici curanti appena gli si espone un malanno molto particolare, se non consultare le prescrizioni curative esistenti on line e spedirti da uno specialista? Voglio dire che la maggior parte delle domande (non solo di storia, ma di medicina, ingegneria, archittettura, diritto ecc.) vengono soddisfatte dalle risposte che danno i media dediti all’informatica. Grazie ad essi l’informazione di base, i rudimenti del sapere sono forniti ampiamente.
Di fronte al contributo fornito da questi strumenti, sancire la morte ingloriosa dei manuali mi pare un atto elementare, anzi doveroso. Analogamente, e ancora peggio, i programmi ministeriali sono frutto dell’elaborazione di burocrati tristi che hanno interesse solo a rivoltare per decenni la stessa minestra.
Trovo ragionevole la proposta di legare la storia del passato ai processio storici che viviamo, alla vita quotidiana. L’insegnamento della storia deve prendere lo spunto dall’insieme dei problemi che sono descritti ogni giorno dai quotidiani o dalle televisioni.
Abbiamo, dunque, bisogno di manuali aperti, che invece di privilegiare l’implacabile, fredda, narrazione dei fatti, racchiudano questa esigenza nella narrazione dei problemi, nella filiera dei nodi tematici. Ci servono manuali costruiti su un approccio non più evenementiel.
Per capire la vicenda di Moro il docente dovrebbe esporre che cosa sono stati, e perché, i delitti politici. Per capire, e appassionarsi alle tecniche delle riforme elettorali e in generale istituzionali, l’insegnante dovrebbe prendere lo spunto dal dibattito nostrano sull’Italicum per abbracciare il lungo periodo storico in cui si è snodata la querelle sui sistemi della rappresentanza (proporzionale, maggioritario, monocameralismo, presidenzialismo, ecc.) e sulla struttura delle istituzioni.
Analogamente, la Cassa del Mezzogiorno deve essere inserita in un discorso sui modi in cui storicamente è stato affrontato il problema degli squilibri e del sottosviluppo. La crisi del Pci e dei partiti comunisti nel mondo si può capire bene solo se la si affronta dal punto di vista della riformabilità dei regimi nati dalla Rivoluzione d’ottobre che hanno puntato, come ogni religione laica, a cambiare la natura degli uomini e non a governarli così come sono.
E di qui scaturirebbe l’avvio alla comprensione della diversità dei regimi liberali, che ammettono come fisiologico il conflitto e quindi le differenze. Non pretendono di creare “l’uomo nuovo”.
La qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento deve essere misurata sulla capacità del docente e dello studente di inserire in una dimensione generale, internazionale, un fenomeno e una figura politica locale, cioè nazionale. Ciò che importa è l’assassinio politico e non la singola figura di Kenendy o appunto di Moro.
A partire dal presente si recupererebbe l’intera dimensione del passato, cogliendone l’identità nel lungo periodo e non nelle singole circostanze.
O docenti ed editori riescono a produrre testi in cui la storia è concepita come un processo, uno svolgimento dei nuclei tematici (le riforme, le rivoluzioni, l’autoritarismo, le classi e le gerarchie sociali, i consumi, l’idea della donna, la concezione del “diverso”, l’uso della natura, il mito della democrazia, il mercato e lo Stato ecc. ) che si sono articolati nel mondo, oppure resteremo vittime consenzienti dell’attuale regime ministeriale. Che cosa può fare esso di diverso dall’intruppare l’esistente e il preesistente in una serie di programmi che nessuno è mai riuscito a a svolgere se non riducendoli in pillole e vaghe stelle dell’Orsa?