Un amico dispettoso, un commento udito involontariamente all’uscita del cinema, una recensione di cui, erroneamente si è letta la fine: non si contano le situazioni in cui – chi volesse gustarsi un film – rischia di incappare nel peggiore incubo a cui, in questi casi, si può andare incontro. Ovvero conoscere in anticipo il finale del film. Non a caso, nella maggior parte degli articoli online, laddove chi scrive intenda raccontare per intero la sinossi della pellicola, spesso accompagna la parte precedente il finale con un avvertimento chiaramente distinguibile: “Attenzione: spoiler”, dall’inglese “To spoil”, “rovinare”. Un’accortezza per evitare di attirare su di sé le ire dell’ignaro lettore che, inconsapevole di quanto sta per leggere, potrebbe infuriarsi nel vedersi rovinato il film. Ire che si accrescono in misura proporzionale rispetto a quanto si è amanti dei film.
Stesso discorso vale per i libri. Quantomeno per quelli che implichino lo svolgersi di una trama. Conoscerne in anticipo la conclusione guasta il piacere di immedesimarsi nella narrazione fino a diventare un tutt’uno con i protagonisti. I quali, non a caso, ignorano il destino che li attende e quale epilogo avranno le proprie gesta. Tanto varrebbe, quindi, lasciare il tomo per un altro di cui la sorpresa non si è ancora rovinata.
Sapere come va a finire, in sostanza, priva della gratificazione e dell’eccitazione prodotta dall’imprevisto, che se è noto non è più tale. Si direbbe una legge appartenente alla stessa natura umana. O forse no? In realtà, la psicologia smonta una teoria che, nella prassi, sembrava ormai una regola assodata. Pare, infatti, che, secondo un recente studio, gli spoiler non siano così nefasti come il senso comune suggerirebbe.
Anzi. In certi casi, per alcune persone, risulterebbero un elemento che contribuisce ad elevare la qualità della lettura di un libro o della visione di una film, aumentandone la soddisfazione. Nicholas Cristenfeld, professore di psicologia sociale della University of California, e Jonathan Leavitt, candidato PhD in psicologia, lo hanno dimostrato empiricamente.
I due ricercatori hanno dato ad alcuni studenti volontari 12 storie – suddivise in tre generi diversi – di autori come John Updike, Roald Dahl e Agatha Christie, Anton Cechov e Raymond Carver. Ogni racconto è stato fatto leggere ad una trentina di persone, nessuna delle quali, ovviamente, lo aveva mai letto. Alcune storie erano state modificate. Alcuni dei partecipanti all’esperimento hanno ricevuto delle versioni in cui lo spoiler era stato inserito in un paragrafo all’inizio, altri in un paragrafo a parte, altri ancora hanno fruito del racconto originale senza spoiler.
Il risultato é stato sorprendente. La maggioranza dei lettori ha gradito di più i racconti di cui conosceva la conclusione, anche quanto si trattava della risoluzione di un omicidio particolarmente intricato o di un capovolgimento delle premesse iniziali. Un risultato che ha sorpreso gli stessi autori della ricerca (che sarà pubblicata su Psychological Science). A cui, tuttavia, non hanno mancato di dare una spiegazione. Christenfeld e Leavitt, infatti, si sono convinti che si può essere più propensi a godere di una narrazione se liberati dall’ansia provocata dall’impazienza di sapere chi è l’assassino, o se la storia d’amore tra i due protagonisti avrà un lieto fine. In fondo, secondo Christenfeld, «la trama non è nient’altro che un pretesto; ciò di cui si gode è del valore di una buona scrittura». Del resto, hanno sottolineato i ricercatori, chi non ha mai provato l’ebbrezza di leggere per la seconda volta un libro o riguardare un film?
E’ la suspense, quindi, l’elemento più fortemente criticato e sul quale l’industria del cinema avrebbe fatto per anni affidamento. Per Christenfeld e Leavitt, infatti, «Le storie sono un elemento universale della cultura umana, la spina dorsale della miliardaria industria del divertimento, e il mezzo attraverso il quale vengono trasmessi i valori della religione e della società». A conclusione del proprio studio, hanno precisato che «Forse, i regali di compleanno sono più graditi quando avvolti nel cellophane e gli anelli di fidanzamento quando non sono nascosto in mousse al cioccolato».
– Precursori di fatto della teoria dei due ricercatori furono Richard Levinson e William Link, ideatori della famosa e fortunata serie “Il Tenente Colombo”. In onda dal ’68 al 2003, e interpretata dal celebre Peter Falk, i telespettatori non smisero mai di ammirarla e seguirla fedelmente. Eppure i due autori sovvertirono completamente le regole del giallo tradizionale, in un azzardo che, secondo gli schemi tradizionali, avrebbe dovuto fallire: in ogni telefilm, infatti, fin dai primi fotogrammi si sa chi è l’assassino. Colombo, nello svolgimento del racconto, avrò il compito di incastrarlo, mettendo a nudo le contraddizioni del suo alibi.