Il drammatico esito della gita a Ventotene porta alla ribalta il tema dei viaggi d’istruzione, così è il nome esatto dell’unica attività scolastica che in genere interessi i ragazzi in modo attivo: fin dall’inizio dell’anno sono impegnati a sapere quale dei prof sia disponibile a far loro da accompagnatore. Se vi dichiarate possibilisti, la vostra popolarità è già sicura.
In genere nel corpo docente le posizioni sono variegate: c’è chi ritiene il viaggio un utile strumento di socializzazione e a questo scopo subordina anche uno scarso impegno di tipo culturale, c’è chi invece punta sull’aspetto didattico e costruisce persino un pezzo di programma sui contenuti della gita, c’è chi esclude a priori di parteciparvi per ragioni di età, di sicurezza, di indifferenza alla cosa, c’è chi sceglie (e fa scegliere) accuratamente la meta, in modo tale che qualcosa resti attaccato.
Poco in ogni caso: è noto infatti che i viaggi d’istruzione in Italia prevedono solo un rimborso spese, da documentare, come è ovvio; quelli all’estero invece vengono compensati con una diaria più consistente, che è tuttavia sempre sproporzionata ai rischi che si corrono e all’impegno costante che la convivenza con i ragazzi richiede tutto il giorno e sovente parte della notte.
È dunque difficile pronunciarsi in merito, a meno di voler assolutizzare la propria idea e la propria esperienza. Più modestamente, in base alle numerose gite scolastiche cui ho partecipato, ritengo che per la maggior parte esse siano del tutto inutili sul piano didattico: a Firenze, a Ravenna, a Parigi o a Praga il numero di allievi veramente interessato a vedere, a guardare è molto piccolo rispetto a quello dei partecipanti, che vivono la gita come contrapposizione alle lezioni noiose dell’anno scolastico, come un piacevole lungo intervallo in cui non di rado si può trasgredire da ogni punto di vista, nel mangiare, nel bere, nel fumare, nelle esperienze sessuali, perché si è più liberi da vincoli e meno sottoposti al controllo degli adulti.
Il docente accompagnatore è vissuto spesso come un ospite necessario ma indesiderato e non c’entra niente con il desiderio che muove la gita: se è un “amico” sta al gioco e si presta ad accompagnare i ragazzi in discoteca, facendo con loro le ore piccole; se invece ha un suo programma, vuol far visitare luoghi significativi, musei e chiese, ma anche giardini o parchi, deve fare uno sforzo impari per vincere la pigrizia anche fisica dei suoi allievi.
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Se riesce a convincerli che vale la pena conoscere Santa Maria del Fiore o Notre-Dame, raramente raccoglie i frutti di una bellezza che non è apprezzata, perché non è desiderata. I ragazzi sono come turisti, non si soffermano su cose e persone intorno a loro; in generale gettano uno sguardo svagato e subito dopo pensano ad altro, al divertimento che è lo scopo del loro viaggio di istruzione. Esso dunque viene negato, se le parole contano ancora, proprio per come viene desiderato e vissuto. È una gita sociale, non un viaggio di istruzione.
Non può meravigliare che molti docenti, per i motivi più svariati, non se la sentano più di avallare una bugia di questo tipo. Meglio chiamare le cose con il loro nome e poi decidere di conseguenza. Tanto non si rischia nulla: ci sarà sempre chi, convinto della bontà della gita, si presterà a organizzarla. Fa parte del gioco.