“A differenza di quel che si crede, le competenze richieste oggi a chi lavora non sono di tipo tecnico, specialistico o tecnologico, ma consistono nella capacità di interagire in modo efficace con l’organizzazione aziendale e con le sue regole. Questo significa possedere la cosiddetta «etica del lavoro», che vuol dire sapere cosa fare e farlo anche senza un capo che ci sorveglia, essere in grado di risolvere problemi e di interagire con gli altri. Sono le soft skills, per usare un inglesismo molto diffuso tra gli addetti ai lavori. Solo con queste competenze le aziende riescono a valorizzare il capitale umano, che è la vera fonte di vantaggio competitivo nella società postindustriale, in cui le capacità delle persone contano più delle macchine e delle fabbriche”.
Per avere lo studente auspicato da Roger Abravanel può essere buona cosa cominciare dagli insegnanti. E in effetti l’insegnante prefigurato dalla Buona Scuola ha molte di queste caratteristiche. Sarà valutato, ma non sulla preparazione nelle discipline di insegnamento: un dirigente non può conoscerle tutte. Il dirigente valuterà dunque sulla base delle proprie necessità che, data la sua mansione, sono prevalentemente organizzative.
Certo, nessuno dice che le discipline non contano più, ma non c’è bisogno di dirlo: basta darle per scontate, basta che non siano più l’oggetto primario per cui vivi o muori, entri o no, resti o te ne vai, ed ecco che si ritirano nell’ombra, lasciando spazio ad altre qualità. Quali? La capacità di interagire con l’organizzazione e le sue regole. Del resto, da qualche parte lo dice anche la Buona Scuola: bisogna valorizzare gli insegnanti che danno una mano a mandare avanti la scuola. Semmai, le competenze personali (non necessariamente legate alle discipline di insegnamento) saranno importanti per realizzare i vari progetti del piano dell’offerta formativa proposto dal dirigente, progetti che gli insegnanti non sono più chiamati a decidere ma solo a realizzare, risolvendo i problemi che via via si presentano, pragmatici, adattabili. Soprattutto adattabili, perché dovranno cercare di dimostrare di essere funzionali.
Funzionali al progetto del dirigente, alla sua idea di scuola. La salvezza è non avere troppe idee proprie, che fatalmente formano un diaframma, un punto di resistenza; non amare troppo la propria disciplina, o quanto meno non esagerarne la portata formativa: questo intacca la disponibilità a manometterla, a tagliuzzarla, a concepirla come puro ingrediente fungibile di un piano organizzativo. Siamo sempre reticenti a considerare ciò che amiamo come puro materiale, come pura funzione di altro. Come pura funzione dell’organizzazione.
Inoltre, in un quadro in cui ogni dirigente disegna la sua scuola, semmai in collaborazione con il famoso territorio, ma non con gli insegnanti, l’insegnante del futuro, espropriato di ogni certezza sulla rilevanza di ciò che sa, non sa nemmeno per che cosa si deve preparare. Se la prospettiva è di avere tante scuole diverse quanti sono i dirigenti, come fare a sapere che cosa sarà utile sapere?
Nella speranza di essere appetibili si cercherà di accumulare un po’ di tutto, specie ciò che va di moda e che si acquista in fretta, in una perenne tensione a vantare meriti propri e a sperare nei demeriti altrui. A vivere così, si diventa sempre più sottili, sempre più spogli di rapporti autentici come di autentici amori, come di conoscenze approfondite: sempre più adatti ad essere funzioni di un’organizzazione, a eseguire senza porsi domande, a fare quello che si deve fare senza che il capo ti sorvegli. Sviluppando magari la tendenza a farsi sorveglianti dell’ortodossia e della diligenza altrui, visto che l’altrui demerito costituisce una garanzia forse più sicura del proprio merito.
“Dove c’è il tuo tesoro là c’è il tuo cuore”, no? E se il tuo tesoro, cioè ciò che ti dà da vivere, è l’efficienza esecutiva rispetto a un progetto altrui, là sarà il tuo cuore, di questo sarai trasparente, questo insegnerai.
E’ questo che vogliamo? Insegnanti impauriti e oggettivamente resi nemici gli uni degli altri, preoccupati solo di piacere al dirigente? Saranno, costoro, più consapevoli e innamorati dell’irriducibile valore della persona dei nostri figli? Di certo saranno preoccupati di “come” insegnare e non di “che cosa” insegnare: quello lo decide il dirigente. E come? Sono i dirigenti altrettanti geni universali, o almeno premi Nobel dell’educazione? Qualcuno magari, ma generalmente no. Difficile che siano in grado, ciascuno, di studiarsi la sua scuola, di elaborare piani dell’offerta formativa originali. Tanto più che non hanno soldi, per farlo. Che sono ben contenti di, o devono rassegnarsi a, acchiappare i progetti già bell’e pronti che arrivano dall’esterno con i necessari finanziamenti. E soprattutto, devono fare spazio, all’interno di un monte ore sempre più elastico e funzionale, alle uniche cose davvero obbligatorie: le tavole della legge delle diverse educazioni che il ministero impone di impartire. Pillole di pensiero unico, insistenti, categoriche, semplificate. Soli contenuti davvero accreditati di autonomo valore, sulle macerie della cultura divenuta puro strumento per altro.
Riassumendo: la scuola renziana, quella che prepara al lavoro, somiglia molto all’inquietante sintesi di Abravanel. Le somiglia perché si propone come riforma della scuola ma non si interessa dei contenuti, solo dell’organizzazione. Ma se una riforma dell’organizzazione può essere chiamata “riforma della scuola” è chiaro che scuola e organizzazione coincidono, virtualmente senza residui: tutto il resto è fattore, fungibile e secondario.
Scuola e organizzazione coincidono perché essere funzioni dell’organizzazione è tutto ciò che il pensiero prevalente del nostro tempo riesce a suggerire circa il destino degli esseri umani. A questo devono essere educati e quindi, in primo luogo, bisogna presentare loro efficaci modelli. Questo saranno i nuovi insegnanti. Modelli in positivo, premiati quando “funzionano” bene; modelli in negativo, sempre timorosi e precari, adatti a trasmettere il senso di come la condizione alienata del “funzionale” sia comunque in sé un privilegio, tutto ciò che ti separa dall’essere meno anche di quello, respinto nel limaccioso mare degli scartati.
Gli insegnanti non sono lì in primo luogo per insegnare, cioè per te, non sono lì (anatema!) perché amano ciò che insegnano, cioè per sé; sono lì per l’unica cosa che conta, l’unica che sei pregato di imparare: far funzionare l’organizzazione. Per pensare c’è poco tempo, e troppo ce ne vuole per estrarre giudizi e criteri dalla paziente assimilazione della cultura; ciò che serve arriva già pronto, in pacchetti predefiniti e accreditati dal ministero: come mangiare, quali parole si possano usare e quali no, come guidare, come usare le nuove tecnologie, che fare delle droghe e del sesso.