Che la figura di Benedetto XVI venga periodicamente resa oggetto di offensive di stampo anticlericale non è fatto che possa odiernamente stupire, si tratta piuttosto di un atteggiamento culturale che si è affermato a partire dal celebre discorso di Ratisbona del papa del settembre del 2006, a poco più di un anno dall’elevazione al soglio pontificio. La più recente polemica apparsa in Italia si deve all’intervista rivolta al noto teologo Hans Küng, diffusa da L’Espresso in occasione della pubblicazione del suo volume Dio esiste?; un intervento che, di primo acchito, sembrerebbe piuttosto voler essere una reazione all’uscita del volume di papa Benedetto XVI su L’infanzia di Gesù.
Le tesi di Küng sono peraltro ben note, non solo alla comunità teologica mondiale, avendo egli favorito negli ultimi anni la diffusione delle proprie idee attraverso anche i media generalisti: già alla morte di Giovanni Paolo II nel 2005, il sacerdote svizzero aveva espresso una critica accesa al lungo pontificato di questi, reo a suo avviso di aver centralizzato la Chiesa cattolica sulla Santa Sede, favorendo un processo di irrigidimento dottrinale ad intra che l’avrebbe fatta ritornare al cliché preconciliare di istituzione omnipervasiva, secondo il modello proprio del cattolicesimo nazionalista polacco. Il teologo elvetico sarebbe stato in seguito molto duro anche sull’inizio del pontificato di Joseph Ratzinger, a suo avviso fondato su di una visione astrattamente gerarchica della Chiesa e non sul modello di “popolo di Dio”, pur avendo accettato nello stesso anno dell’elezione di incontrarlo e confrontarsi anche apertamente sulle più delicate e incisive tematiche ecclesiologiche e pastorali.
Va rimarcato che la lettura “conciliarista” di Küng (nel senso di esaltazione – e forse amplificazione – delle cosiddette novità teologiche del Vaticano II) non lo ha mai portato, del resto, a invocare una “rivoluzione” interna alla Chiesa, piuttosto a criticare il fatto che a suo avviso non sono state colte e attuate appieno le intuizioni dell’Assise nel confronto della fede con la modernità; di contro, il magistero recente avrebbe tentato di “forzare” nelle maglie di una visione per così dire “pan-teologica” atteggiamenti e problematiche spesso suscitate dal progredire tecnico e culturale, e comunque dall’evoluzione nella società dei costumi e dei comportamenti: tutte materie, queste, che secondo il teologo sarebbero piuttosto dovute rimanere al di fuori di “forzosi” incasellamenti dottrinali, soprattutto se di fonte direttamente papale.
In effetti, Küng si è sempre mostrato favorevole ad un approccio più aperto ai temi della bioetica e della sessualità, così come a riconsiderare la dimensione vocazionale degli stati di vita del cristianesimo. E non è un caso, sul versante dell’ecumenismo, che il pensatore svizzero si sia in passato scagliato contro il messaggio della Dominus Jesus del 2000, e sul concetto ivi riaffermato di “extra ecclesia nulla salus” (in una linea in ciò sintonica alle riflessioni di altri autorevoli teologi “progressisti”, quali Ranher e Congar), ritenendo più una facciata edulcorata a beneficio d’immagine gli sforzi di papa Wojtyla di dialogo interreligioso culminati negli incontri di Assisi, coprente una mentalità che in realtà sarebbe rimasta rigidamente chiusa alle altre confessioni in ambito soteriologico.
Ma è soprattutto sul piano “politico” che Küng ha riservato i suoi strali più partecipati ai due ultimi pontificati: un’accusa riassumibile nella presunta mancanza di distinzione tra i piani della Chiesa e dello Stato – una sfida alla moderna concezione della “laicità” – che avrebbe portato a esercitare molto di più di una “moral suasion” sugli attori della politica nazionali e interazionali, soprattutto nei confronti del parlamento europeo e in particolare del Ppe, su temi moralmente sensibile quali l’eutanasia, l’aborto, la fecondazione assistita e la contraccezione, facendo di fatto leva sull’antica concezione imperialistica della Chiesa incentrata sul sistema romano medioevale per affermare una sorta di controllo di aspetti della vita, secondo lui, da ritenersi esterni alla morale cristiana.
Tra le ultime accuse rivolte da Küng all’attuale pontificato, vi è infine la sua condanna dell’apertura mostrata da Benedetto XVI nei confronti dei lefevriani, ai quali è stata prospettata la possibilità di rientrare nella comunione del cattolicesimo romano. In un’altra intervista, sempre forse non a caso destinata a una testata italiana, nell’occasione a Repubblica (27 gennaio 2009), il teologo si espresse sul caso dell’accoglienza ai tradizionalisti, parlando apertamente in termini di rischio di una “restaurazione nella Chiesa”.
Ciò detto sinteticamente delle posizioni di Küng − è il caso qui di ripetere − non nuove nel loro significato e semmai utili nell’articolo succitato de L’Espresso a volerlo dipingere come una sorta di “anti-Ratzinger di sinistra”, va solo aggiunto che non appare così facile “incasellare” le scelte di Benedetto XVI nel quadro di un conservatorismo prevedibilmente retrogrado quale appare generalmente in consimili dipinture avverse. Basterebbe guardare alla recente nomina nel ruolo dottrinalmente più delicato della Chiesa cattolica – quello di prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede –, e da egli stesso lungamente ricoperto, di mons. Gerhard Ludwig Müller, certo non un ecclesiastico “conservatore”, in passato anche amico del teologo della liberazione Gustavo Gutiérrez Merino.
D’altro canto, va anche detto che il significato delle critiche avanzate da Küng è stato spesso travisato quando non strumentalizzato a fini prettamente anticlericali. Basti notare come egli venga presentato tout court come un “antipapa” nell’intervista de L’Espresso, avvalorando in un’ottica piuttosto demagogica quella corrente di pensiero che lo vuole dipingere come una sorta di “sedevacantista” di sinistra che starebbe negando la legittimità magisteriale degli ultimi due pontificati. A sommesso avviso di altri interpreti, Küng pare più un riformatore dall’interno, certo fedele interprete in ciò delle tesi discontinuiste della teologia “progressista” tedesca del Vaticano II, alle quali peraltro lo stesso papa Ratzinger si dovette accostare in qualità di perito del card. Josef Frings.
L’ottica di Küng è sempre stata quella di auspicare un modello di Chiesa più prossimo alla modernità, indubbiamente meno concentrato sulla “difesa” del depositum fidei e “sanguignamente” più incline a sfidare a viso aperto la secolarizzazione e le sue degenerazioni antropologiche. Non è però in questo Küng da considerarsi uno scismatico – avrebbe sempre avuto la possibilità di uscire dalla Chiesa e non l’ha mai fatto –, ma un teologo politico che punta sulla rivisitazione di aspetti certo importanti della struttura ecclesiale (sul modello di sacerdozio e la connessa scelta celibatale, ad esempio) ma non è parso mai volere intaccare il nucleo dogmatico di fondo della Chiesa cattolica, nemmeno nel caso delle sue critiche, peraltro severe, alla mariologia cattolica corrente.
E non andrebbe forse nemmeno enfatizzata troppo la sua posizione di avversario, anche personale, nei confronti dei due ultimi pontefici e delle loro posizioni dottrinali e pastorali: si tratta piuttosto di critiche anche dure, che non travalicano però i confini della confessionalità. Anche per questo, come ci è capitato anche in passato di ricordare, la Chiesa non è un parlamento, ed i suoi attori non si ritengono nemici da combattere ma fratelli in Cristo, magari qualche volta ritenuti in errore e pertanto da correggere, in direzione della comune chiamata alla salvezza. E ciò, si consenta qui, non è offrire un semplicistico esercizio di irenismo accomodante, ma osservare il doveroso rispetto per un’istituzione con le sue specificità irripetibili, che si intende punto di congiunzione tra l’umano e il divino.