Esiste un lato oscuro dell’autonomia. È quello del corporativismo, della logica clientelare e familistica che orienta le dinamiche interne a molti corpi autonomi presenti nell’ordinamento repubblicano. I mezzi d’informazione tendono a rappresentare soprattutto questa dimensione. Un diffuso, nuovo elitismo ingenuo sembra ispirare una visione dell’autonomia (di ogni autonomia) come potenziale nido di “caste” e strumento di oligarchie occulte.
Questa però è soltanto una parte della verità. L’autonomia ha anche un lato buono del quale troppo spesso ci si dimentica: essa costituisce, infatti, una condizione necessaria di esercizio di molti (se non di tutti i) diritti fondamentali e, proprio per questa sua essenziale attitudine, ha trovato riconoscimento in Costituzione, nelle sue tante, diverse declinazioni.
L’autonomia universitaria, ad esempio, non è soltanto occasione di malaffare, ma anche indispensabile condizione per l’esercizio della libertà di ricerca e d’insegnamento. È proprio il connubio tra queste due componenti a dare la cifra qualificante dell’istituzione accademica. L’università è quel luogo nel quale si fa ricerca insegnando e s’insegna facendo ricerca. E l’autonomia dell’accademia consente di svolgere liberamente questo straordinario percorso diretto all’accrescimento della conoscenza e alla promozione della cultura, senza indebite ingerenze politiche.
Chi ha a cuore l’autonomia universitaria — e, con essa, la libertà di ricerca e d’insegnamento — difficilmente può restare indifferente dinanzi alle modalità di designazione delle commissioni chiamate a selezionare gli “studiosi di elevato merito scientifico” destinati a ricoprire la “cattedre Natta”.
Previsto dalla legge di stabilità 2016 (art. 1, comma 207), il “Fondo per le cattedre universitarie del merito Giulio Natta” sarebbe stato istituito al fine di “accrescere l’attrattività e la competitività del sistema universitario italiano a livello internazionale”. In che modo? Attraverso un reclutamento straordinario per chiamata diretta di professori universitari di prima e di seconda fascia, le cui procedure dovrebbero svolgersi in deroga alle norme sul reclutamento dei professori universitari previste dalla legge Gelmini.
Il dPCM inerente a tali procedure è attualmente al vaglio del Consiglio di Stato. Le previsioni più preoccupanti sono quelle che riguardano le modalità di designazione dei commissari.
Si stabilisce, in particolare, che i presidenti di ciascuna commissione siano nominati con decreto del presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro dell’Istruzione, dell’università e della ricerca, e che ciascun presidente di commissione scelga gli altri commissari tra “studiosi di elevata qualificazione scientifica e professionale”, attingendo a un’apposita lista predisposta dall’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur). La garanzia dell’imparzialità delle commissioni sarebbe assicurata dalla circostanza che i presidenti delle stesse potrebbero essere scelti tra studiosi “di elevatissima qualificazione scientifica, che ricoprono posizioni di vertice presso istituzioni universitarie o di ricerca estere o internazionali” (art. 4, commi 2 e 3).
La soluzione solleva molti problemi sui quali si sta già sviluppando un acceso dibattito, anche al di fuori del mondo accademico.
Un primo dubbio attiene alla disciplina ordinaria di reclutamento dei professori universitari: se si ritiene che i metodi previsti dalla legge Gelmini non siano in grado di assicurare “attrattività” e “competitività” al nostro sistema universitario, tanto da reputarsi necessaria l’introduzione di procedure in deroga alla disciplina vigente, perché non intervenire su quest’ultima? E perché avviare, come si è appena fatto, una nuova procedura per il conferimento dell’abilitazione scientifica nazionale sulla base di norme evidentemente ritenute inadeguate?
Il maggiore motivo di preoccupazione riguarda però le garanzie d’imparzialità di commissioni nominate dall’Esecutivo. Il curriculum internazionale dei potenziali presidenti delle commissioni non è, infatti, una condizione di per sé sufficiente ad assicurare la terzietà dei valutatori. Sembra tornare, in tale soluzione, quell’abbaglio esterofilo che aveva ispirato l’introduzione di commissari stranieri nelle precedenti procedure di conferimento dell’abilitazione scientifica nazionale. Una scelta che, com’è noto, ha creato non pochi problemi sul piano pratico e che è stata saggiamente abbandonata nella revisione della disciplina relativa alla nuova abilitazione nazionale.
C’è, infine, alla base di tale iniziativa l’idea (difficilmente accettabile) che dinanzi al reale o presunto fallimento dell’autonomia universitaria, le scelte degli accademici possano essere surrogate da quelle dei politici, come se, negli anni, questi ultimi avessero dato miglior prova di sé rispetto ai “baroni” universitari. Ed è piuttosto singolare che si sostenga una cosa del genere proprio nel momento in cui uno dei più sbandierati vantaggi del processo riformatore in corso è la riduzione dei “posti” (e, dunque, dei “costi”) della politica. Non si comprende, in sostanza, quali garanzie potrebbe offrire una selezione dei valutatori accademici proveniente da una classe politica talmente delegittimata da non riuscire a trovare una promessa più allettante della riduzione fisica dei propri elementi.