Eveline, uno dei quindici racconti che Joyce pubblica nel 1914 con il titolo di Gente di Dublino, è tutto giocato sul discorso indiretto libero e dunque su una visione interna del personaggio. L’esordio ne anticipa il timbro e nello stesso tempo si inserisce nell’intero intento della raccolta. “Seduta alla finestra guardava la sera invadere il viale. Teneva la testa appoggiata contro le tendine e sentiva nelle narici l’odore del crétonne polveroso. Era stanca”.
Eveline ha diciannove anni; guardando la gente e le case del suo quartiere, ripensa al campo in cui aveva giocato con i suoi fratelli, le sue sorelle e gli altri bambini del vicinato. Erano bei tempi quelli, ma tutto era cambiato: nella sua famiglia fratelli e sorelle si erano fatti grandi, la mamma era morta, il padre era diventato violento.
Lo sguardo di Eveline si posa sugli oggetti familiari che spolverava ogni settimana. Stava per andarsene, convinta da un giovane marinaio, Frank, un ragazzo buono e generoso che si era innamorato di lei e che voleva condurla con sé a Buenos Aires. Lavorava come commessa e aveva portato per anni tutto il peso della famiglia, dava in casa il suo stipendio e temeva le discussioni e le percosse del padre. “Un lavoro duro, sì, una vitaccia; eppure, ora che stava per lasciarla, già non la trovava più così insopportabile. Ne avrebbe cominciata un’altra, adesso, con Frank”. Eveline si abbandona ai recenti ricordi della sua storia d’amore. In grembo ha due lettere: una per Harry, il fratello maggiore che lavora lontano, l’altra per il padre, del quale rammenta alcuni episodi di gentilezza.
Dal viale sale il suono di un organetto, il cui motivo è lo stesso che si era levato la sera della morte di sua madre, alla quale aveva promesso di tenere insieme la famiglia finché avesse potuto e che aveva concluso una vita di sacrifici con la follia. “S’alzò di scatto, sotto l’impulso del terrore. Fuggire! Fuggire doveva! Frank l’avrebbe salvata. Le avrebbe dato vita e forse anche amore. E voleva vivere lei. Perché avrebbe dovuto essere infelice? Anche lei aveva diritto alla felicità”.
Uno stacco grafico sottolinea l’improvviso cambiamento di scena: Eveline è con Frank al porto. Lui la tiene per mano e le parla. Ma lei è sgomenta e nel groviglio della sua disperazione prega Dio di illuminarla. Con entrambe le mani si aggrappa ai cancelli e lascia che Frank la chiami invano sulla nave. Rivolge solo gli occhi verso di lui, senza alcun segno di addio. Si può essere coraggiosi anche nella comprensibile paura del nuovo? Oppure Eveline non sa staccarsi da ciò che le è, anche dolorosamente, familiare? È solo il senso del dovere a troncare il sogno di una felicità così a portata di mano? O piuttosto un attaccamento fisico, fatto di cose, di odori, di suoni, di memorie, in una parola una appartenenza? Eveline è condizionata dalla sua storia al punto da non essere libera? Oppure la sua è un’altra, incomprensibile, forma d’amore, che coincide con il sacrificio?
L’intento di Joyce è di descrivere nel grigiore di Dublino l’opacità del mondo che si sgretola davanti a lui, e non solo a Dublino. Ma è noto che in ogni opera d’arte, una volta compiuta, entro certi limiti, si possono leggere altri significati e che cercarli è un modo per prolungare la voce dell’Autore fino a udirla parlare dei nodi più problematici e irrisolti di ciascun uomo. Dopo quasi un secolo dalla sua pubblicazione, questo racconto di Joyce è capace di rappresentare la complessità del cuore umano in una forma quotidiana, dimessa e proprio per questo così degna di ammirazione, così in grado di suggerire qualcosa di grande.