Il mondo islamico è oggi dinanzi a un bivio, decisivo per la sua stessa sopravvivenza. Molto, anzi tutto dipenderà dalla scelta che prenderanno le generazioni più giovani. Da un lato lo sviluppo di un modello democratico solido, che nulla però ha a che vederecon la democrazia islamica propugnata oggi in Medio oriente dalla frange fondamentaliste; dall’altro, cedere alla seduzione dell’estremismo religioso, che è riuscito, molto abilmente, ad accreditare in occidente una immagine “moderata” e dialogante di se stesso. Lo afferma Souad Sbai, ex parlamentare Pdl, giornalista, presidente dell’associazione Acmid donna, nel suo ultimo libro, Da Tunisi a Istanbul (Curcio, 2013). Una visione a tutto campo degli eventi che hanno segnato il nord Africa, dalla Tunisia all’Egitto, negli ultimi tre anni, da quel 17 dicembre del 2010 in cui il giovane tunisino Mohammed Bouazizi si diede fuoco, innescando quella “Primavera araba” che fece gridare troppo frettolosamente al miracolo tutti i paesi occidentali. Purtroppo, dietro l’apparenza si celava anche molto altro.
Souad Sbai, è possibile, a tre anni dalla primavera araba, dare una chiave di lettura unitaria di quanto si sta verificando in nord Africa e in medio oriente?
Sicuramente c’è una chiave di lettura che prevale su tutte e che accomuna sia l’Africa che il Medio Oriente: l’avanzata dell’estremismo radicale jihadista. Lo dimostra il fatto che oggi, a combattere i conflitti in quei territori, sono i mercenari venuti dall’estero assoldati dai Fratelli musulmani per reislamizzare tutta l’area, considerata non abbastanza salafita.
Ma lei cosa pensa della definizione di “primavera araba”? In Occidente sembra dominare l’idea di una promettente “primavera” del Nord Africa poi tradita dal potere.
In generale, sarebbe più corretto parlare di “inverno arabo” sia per il periodo storico in cui le rivolte di piazza sono iniziate sia per quello che hanno prodotto. Le premesse avrebbero potuto portare veramente ad un rinnovamento democratico, ma le logiche di potere hanno preso il sopravvento sui processi di trasformazione politica e sull’avvio di riforme orientate alla salvaguardia della libertà popolare.
Lei invece quale ipotesi interpretativa propone? Che cosa non avrebbe capito l’occidente?
L’islam, continuando a lavorare nell’ombra, ha beneficiato degli errori dei regimi autocrati e ha contribuito a determinare il grande inganno, ovvero considerare i Fratelli musulmani “moderati”. La Fratellanza nasce come movimento religioso salvo poi trasformarsi in un movimento politico che ha come obiettivo quello di instaurare la legge islamica nella società.
Come si spiega la “svista” dell’occidente?
Attribuirei la responsabilità alla cedevolezza delle classe dirigenti europee e americane che con il concetto di “attenuante culturale” hanno giustificato, in nome di una perversione dell’idea di pluralismo e di un relativismo demagogo, le peggiori derive del totalitarismo islamista, fra cui il burqa, il comunitarismo separatista, la teocrazia misogina, la poligamia e la limitazione della libertà d’espressione.
È un fatto che dopo le guerre di liberazione, il tessuto delle società arabe si è sfilacciato e indebolito, mentre l’islam politico ha saputo organizzarsi. Come mai?
Perché l’islam ha saputo fare leva sul malessere delle popolazioni, nutrendosi del degrado in cui esse vivevano. Sono state le cattive condizioni economiche e sociali che hanno permesso alla Fratellanza di assoldare un numero sempre più cospicuo di adepti. Essa infatti, nella prima parte del Novecento, in un momento in cui tutto il mondo islamico stava vivendo una trasformazione sostanziale della società civile e del quadro politico mondiale dovuta al tracollo dell’impero ottomano, rappresentò una valida alternativa.
Nel suo libro lei colloca la “primavera araba” in un contesto più ampio che abbraccia anche il Medio oriente. Perché?
Perché l’Arabia Saudita ha spostato il conflitto in Siria con l’intento di indebolire la parte sciita. Questo comporta un cambiamento degli equilibri geopolitici nell’intera area.
Nella sua analisi lei considera quanto accaduto in Libia uno spartiacque. Che significato ha il caso-Libia?
Nel bene e nel male, Gheddafi fu capace di controllare il sistema tribale preesistente. Era il garante di quell’equilibrio che oggi è messo in discussione. Dopo la morte del Colonnello tutto è stato messo a tacere nascondendo un’impalpabile involuzione politica e istituzionale.
Nemmeno l’Egitto trova ancora pace.
La fase di transizione, iniziata nel 2011, avrebbe dovuto portare dal vecchio regime di Mubarak all’instaurazione di uno di ispirazione democratica. Ma il processo è stato ostacolato dai Fratelli musulmani che, nel giugno 2012, hanno portato al potere Mohammed Morsi, il primo presidente eletto nella storia del paese. Immaginate 30 milioni di cittadini scesi in piazza per protestare, con coraggio e determinazione, rischiando la vita per ritrovare la propria libertà: fu un momento dolorosissimo e di grande rammarico dover constatare invece che bisognava aspettare ancora per l’avvio di un rinnovamento politico e l’attuazione di riforme urgenti contro la crisi economica.
Quanto potrà durare la transizione?
Non lo sappiamo. Intanto, i giovani hanno dovuto battersi per altri due anni. Il governo di Morsi, infatti, ha visto il progressivo deterioramento della situazione economica e sociale del paese e l’aggravarsi del malcontento nella popolazione. I suoi metodi, considerati illegittimi da gran parte dell’opinione pubblica, ha portato al coagularsi di movimenti di protesta culminati con le grandi manifestazioni del 30 giugno 2013. In quell’occasione il perpetuato rifiuto del presidente egiziano di condividere il potere con le forze politiche dell’opposizione ha innescato un nuovo intervento dei militari nella scena politica i quali, preoccupati dalla crescente instabilità, il 3 luglio hanno deposto Morsi con il compito di traghettare il Paese verso la democrazia. Quelle proteste hanno sancito il fallimento dei regimi islamisti e oggi sono un esempio per gli altri paesi arabi.
Nel contesto di tutti questi sommovimenti lei attribuisce al Marocco (che è la sua patria d’origine) una trasformazione del tutto peculiare. È solo patriottismo?
Assolutamente no. Abbiamo tutti combattuto, soprattutto le donne, per avere più diritti. Il Marocco è sicuramente un Paese più evoluto in cui è in atto un processo di democratizzazione importante grazie al Re, che ha voluto assecondare la popolazione. Oggi è un Paese stabile, pluralista politicamente in cui i tanti movimenti sui diritti umani trovano espressione così come gli organi di stampa.
Lei scrive che storicamente la “lotta contro l’islamismo radicale” è stata usata come un pretesto. Cosa significa?
Di fatto alcuni regimi del mondo arabo pur di mantenere il potere hanno utilizzato la lotta contro l’islamismo radicale come pretesto per sottomettere la popolazione e consolidare la propria autorità.
Alla luce della sua analisi, cosa sta “veramente” succedendo in Siria? Qual è la posta in gioco?
La Siria è attaccata su tutti i fronti ed è impossibile ipotizzare quanto possa reggere ancora il governo di Damasco. Una parte dell’opposizione, non a caso, è capeggiata e appoggiata dagli estremisti. Da una parte, i membri di Al Qaeda vorrebbero la fine del regime per poi essere in grado di poter ricattare, con maggiore forza, la comunità internazionale e, in particolare, il mondo arabo-musulmano. Dall’altra, i sostenitori della democrazia islamica sentono l’esigenza di rafforzarsi ulteriormente su tutta l’area. Tutto in nome di interessi economici.
In occidente la democrazia sembra la migliore delle forme di governo finora adottate. Perché lei, nel libro, mette in guardia appunto dai fautori della “democrazia islamica”?
Gli islamisti non considerano i diritti di tutti, soprattutto quelli femminili, come un’urgente priorità di democratizzazione. Se confermeranno la loro strategia politica, nulla verrà fatto per contrastare le discriminazioni e promuovere la libertà d’espressione.
Qual è la sua personale opinione in materia di libertà religiosa, soprattuto con riguardo ai cristiani autoctoni in paesi come Siria ed Egitto?
I cristiani si trovano in una situazione drammatica come quella che vivono tutte le minoranze. Per i jihadisti e i salafiti la vera battaglia è contro l’Europa e contro l’Occidente perché sono kuffar “infedeli”. Con la mia associazione combatto per tutelare i diritti di tutte le minoranze e mi auguro di non dovere mai più assistere nel mio paese a casi di omicidio per apostasia come è successo in passato per Rachida Radi. La libertà religiosa è un diritto fondamentale che non deve mancare in nessun Paese civile, il vero reato è la sua strumentalizzazione.
Che cosa vuol dire per lei − donna, intellettuale, politico − scrivere un libro come questo?
Significa provare ad arginare l’eversione islamica che in Occidente si sta diffondendo a macchia d’olio e trova sempre più sostenitori; significa portare all’attenzione dell’opinione pubblica temi importanti che riguardano la società civile, cercando di sensibilizzare sul rischio della deriva fondamentalista a cui tutto il mondo è soggetto. Non si può restare indifferenti contro chi, sacrificando vittime innocenti, calpesta quotidianamente la giustizia, la verità, la religione distorcendone l’immagine e restituendone una violenta e terroristica.