Una domanda si agita, senza fare molto rumore, attutita e come ovattata al fondo delle nostre occupazioni di ogni giorno, dentro le pieghe dei nostri pensieri e dei nostri gesti. Questa domanda chiede, silenziosamente, il perché siamo nati. Sarebbe sbagliato considerarla una tipica occupazione da filosofi o da psicoanalisti; tanto meno il suo copyright può essere ridotto a una proprietà degli ecclesiastici. Se facciamo attenzione, ciascuno di noi può sorprenderla nel moto della sua esperienza, anche se normalmente nessuno si ferma apposta per porla: ma questo è forse il segno più evidente di come quella domanda non sia un interrogativo vago e astratto, ma sia tessuta, come l’ordito, nella trama della nostra esistenza.
Tanto che l’unica via per scoprirla è quella di seguire il richiamo delle circostanze, avvertire la sfida degli avvenimenti, prendere sul serio i bisogni che segnano ad ogni istante la nostra persona. E soprattutto non censurare il desiderio di compimento e di felicità che tutti quei bisogni portano a galla, e che ci permette di non mollare la presa del vivere. Rispetto alla domanda sul perché siamo nati noi potremmo infatti non avere ancora risposta, ma questo non annulla l’interrogativo, anzi, possiamo continuare a stare al mondo solo grazie ad un minimo di attesa – magari avvertita in maniera sorda e confusa – di scoprire quel senso.
Proviamo a pensare a quel momento cruciale in cui, in qualche modo, noi rinasciamo o ricominciamo ogni giorno, quale è il risveglio mattutino dal sonno della notte: se nella coscienza che si ridesta, spesso a fatica, occupata istantaneamente da tutte le cose, i progetti, le incombenze, i fastidi e i piaceri della giornata che sta per cominciare, noi non ci aspettassimo nulla, voglio dire, se non avvertissimo una qualche promessa di compimento per noi stessi, ebbene io penso che non metteremmo nemmeno le gambe giù dal letto. O lo faremmo, sì, ma in quanto esseri programmati da un’abitudine in fondo automatica, o nel migliore dei casi supportati dal senso di un dovere nobile, e tuttavia tante volte amaro. Di quell’amarezza, o forse tristezza, che una volta Tommaso d’Aquino ha chiamato il «desiderio di un bene assente», e che non può essere vista solo come un disagio psicologico, ma come una condizione strutturale e permanente della nostra coscienza. Ma qual è questo bene che ci chiama proprio con la sua assenza?
Ci verrebbe quasi automatico rispondere che si tratta di ciò che siamo chiamati a perseguire con i nostri progetti e che dobbiamo realizzare grazie alle nostre capacità. Che insomma questo bene – quale che ne sia l’immagine che ciascuno di noi ne coltiva – è qualcosa in nostro potere, per quanto poi non sia affatto scontato che riusciamo effettivamente a impossessarcene. E allora tutto il gioco dell’esistere diventa una lotta per questo potere (non solo quello economico o politico ma ogni tentativo di rendere egemonia ciò che sta nella nostra testa): e si tratta di una lotta con noi stessi molto più che con gli altri, perché dall’esito di questo progetto, cioè dalla nostra riuscita, dipende se alla fine possiamo dire che l’esser nati ha avuto davvero un senso per noi, o no.
E se invece il bene che desideriamo, se il possibile senso dell’esistere non stesse semplicemente alla fine, nell’esito delle nostre performances (anche in esse, certo), ma soprattutto all’inizio, nel fatto stesso che siamo nati? Si tratta di un fatto che noi abitualmente riduciamo in senso positivistico: accaduto, notificato e sempre certificabile attraverso un documento dell’Ufficio comunale di residenza. Ma in esso si raccoglie, quasi si raggruma un enigma, o meglio il mistero del nostro essere, e cioè che noi ci siamo, ma potevamo anche non esserci. Perché proprio noi? L’esser-nati è il primo limite della nostra finitezza, prima ancora della morte; e se quest’ultima può essere pensata come la cessazione e la fine di me, la nascita è un “terminale” che è anche un inizio, la soglia dell’essere, il punto in cui noi “proveniamo” da altro rispetto a noi stessi.
È per questo motivo che il Natale cristiano mi sembra un’occasione decisiva di memoria non solo per chi fa l’esperienza della fede ma per tutti coloro che hanno a cuore le domande e le attese della ragione: come dice il Prologo del Vangelo di Giovanni, uno dei testi fondativi di tutta la nostra tradizione culturale, «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. (…) E il Verbo si fece carne e pose la tenda tra noi». Se il «Verbo», cioè il logos, il senso ultimo delle cose, viene a nascere nella carne, allora ogni nascere, ogni carne ha senso, è uno strappo dall’assurdo. Il Natale dice che noi siamo sempre “più” di quello che siamo capaci di fare: è un’eccedenza che ci precede, che deborda sin dall’inizio: anzi, l’inizio è proprio questo debordamento, questa gratuità. L’essere non è una presenza muta, un fatto opaco senza senso, ma “accade”: è tempo, avviene come storia. E per questo, finalmente, riusciamo a “fare” tutto ciò che possiamo.
Nel trend culturale oggi dominante sembra che l’unico possibile “senso” delle cose e della vita sia quello dell’eterna ruota della natura, e che quindi sia la morte il significato necessario del vivere. E l’unica risposta davvero appagante alla domanda iniziale sarebbe appunto che tutto è assolutamente necessario – senza altro “perché”. Cercarlo sarebbe follia o ingenuità. E non ci resterebbe che gridare con il Leopardi del Canto notturno, che «è funesto a chi nasce il dì natale». Solo che per Leopardi questo era, appunto, un grido, una domanda ferita; per noi spesso è il sigillo di una quieta soddisfazione, come l’accontentarsi di quello che si è in grado e si ha il potere di essere. Per questo, tutto sembrerebbe giocarsi nella tecnica politicamente più adeguata o nella strategia culturalmente più raffinata per gestire in qualche modo la morte, cioè l’impossibilità che si dia un senso di noi che sia più di noi.
Uno dei più grandi filosofi del Novecento, Martin Heidegger, ha scritto che l’estrema possibilità dell’essere umano finito si gioca nel suo essere-per-la-morte (cioè in fondo nella sua “impossibilità” ad essere se stesso) e nella decisione di assumere questa sua impossibilità come il suo vero destino.
Ma la sua amica, e filosofa anch’essa, Hannah Arendt, gli obiettava a distanza che tutto invece si gioca nell’esser-nati e nell’assumere la possibilità di iniziare che ogni essere umano è in quanto tale. E non è strano che la Arendt (ebrea secolarizzata) dica di averlo imparato dal cristiano Agostino, quando questi afferma che «l’uomo è stato creato perché potesse veramente cominciare qualcosa», o meglio «perché egli stesso fosse un inizio» (initium ut esset creatus est homo). Perché siamo nati, se non per cominciare? E come potremmo cominciare se non dal fatto di esistere come un evento che porta in sé il suo senso e il senso del mondo intero?