Battere le palpebre sembra essere una delle azioni più semplici e quotidiane che si possano compiere. Eppure anche osservando questa azione solo apparentemente banale si incontrano molte osservazioni scientifiche interessanti. La sezione scientifica del New York Times ha, ad esempio, messo in evidenza un fatto di cui molti genitori possono accorgersi facilmente: i neonati tendono a battere le palpebre molto meno frequentemente degli adulti. Bisogna ricordare che la rapida chiusura e riapertura delle palpebre, detta “ammiccamento”, ha il compito importantissimo di pulire la superficie del nostro occhio. Un adulto rilassato ammicca circa 15 volte in un minuto, mentre un neonato batte le palpebre solo due volte al minuto: il numero di ammiccamenti aumenta poi gradatamente con l’età fino ad arrivare a livelli simili a quelli adulti verso i quattordici anni.
Ma, come spesso accade, questa semplice osservazione sperimentale non ha ancora una spiegazione chiara e universalmente accettata. Secondo alcuni i neonati non hanno bisogno di pulire spesso le loro superfici oculari, in parte perché sono molto piccole e in parte perché, dormendo molto, rimangono aperte per meno tempo. Questo farebbe si che il meccanismo automatico di “pulitura” avrebbe meno necessità di funzionare.Secondo altri però il problema sarebbe invece legato al fatto che i neonati si trovano in un mondo completamente nuovo, pieno di stimoli e devono dedicare enorme attenzione a tutto. E’ infatti un dato sperimentale noto che l’attenzione, anche negli adulti, diminuisce l’ammiccamento.
Durante la lettura di un libro si battono le palpebre solo dieci volte al minuto, mentre lavorando al computer si scende sotto le sette volte al minuto; è una delle cose che rende affaticante il lavoro al computer (o i videogiochi): durante queste attività bisognerebbe ricordarsi di ammiccare volontariamente. Un neonato quindi ammiccherebbe poco per la continua attenzione e stupore che il mondo genera in lui.
Un altro aspetto interessante dell’ammiccamento è il fatto che durante queste continue chiusure delle palpebre non si percepisce il buio. Si potrebbe pensare che questo sia dovuto alla velocità dell’apertura e chiusura (“breve come un battito di ciglia” si dice). In realtà la chiusura e riapertura dell’occhio dura circa un terzo di secondo: per metà di questo tempo, le palpebre restano completamente chiuse, riducendo del 90% la luce che raggiunge la retina. Se qualcuno ci spegnesse la luce per lo stesso tempo, saremmo perfettamente in grado di notare l’oscurità. La spiegazione risiede nel fatto che durante l’ammiccamento, proprio per evitare di percepire il buio, l’attività visiva viene soppressa.
Questo è stato analizzato tramite un esperimento in cui la luce è stata fatta arrivare sulla retina non attraverso le superfici oculari, ma attraverso il palato. In questo modo la luce arrivava sulla retina anche durante la chiusura delle palpebre. Si è visto che l’intensità della luce necessaria a stimolare la retina quando gli occhi sono chiusi è cinque volte maggiore di quella richiesta in qualsiasi altro momento: il nostro cervello “stacca” l’attività visiva mentre chiudiamo le palpebre per permetterci di non vedere il buio e di continuare a pulire i nostri occhi.
Nel frattempo ci ripropone un’immagine che ha già “salvato in memoria” (in gergo informatico si potrebbe dire che il cervello ha bufferizzato un’immagine, un po’ come fa il computer quando guardiamo un video su you tube e salva dati in memoria per poter continuare la riproduzione anche in caso di rallentamento della rete). Qualunque paragone informatico non regge comunque con la complessità di operazioni che continuamente facciamo, molte volte in un minuto, per poter svolgere la splendida esperienza umana del vedere.