“Questa scuola fa proprio per me”. Nell’Istruzione e Formazione Professionale, dove insegno da diversi anni, destinata in Italia purtroppo (nonostante picchi di speranza puntualmente interrotti) a raccogliere ragazzi e e ragazze che hanno avuto una carriera scolastica non proprio eccellente, il problema della demotivazione e del “disagio” scolastico è spesso drammaticamente presente. Se un ragazzo non arriva in qualche modo al giudizio: “Questa scuola stavolta fa per me”, rischiamo di perderlo anche fisicamente (dropout), come esito di una “perdita” che molto probabilmente è già iniziata nel suo animo mesi (anni?) prima.
È questo il segno (uno dei segni) del fatto che, nella società postomoderna, la scuola, non solo in Italia, fa sempre più fatica a ritrovare la sua identità (altri, se si osasse paragonarla a un’azienda, direbbero: “la sua vision e la sua mission”). L’area di disaffezione scolastica, da esplicita a borderline e più o meno occultata, pare comprendere ormai più del 50% dei suoi utenti (insegnanti inclusi?).
O meglio, quando tenta di “ritrovare la rotta”, la scuola sembra cercare vision e mission in una direzione in cui non incontra coloro per i quali si dica debba esistere. L’idea, verso cui troppo spesso ci si orienta, di accompagnare agli insegnamenti tradizionali uno o più laboratori e materie con finalità, e conseguente organizzazione aziendale, prevalentemente addestrativa, si risolve in una proposta, più o meno arricchita da materie “culturali” che riassumono “terra terra” le “auliche” discipline liceali, la quale di fatto non sembra all’altezza della sfida educativa e formativa proposta ogni giorno dai nostri ragazzi.
Ma anche il rilancio della scuola come luogo in cui “accade” il sapere “vero e gustoso”, tramite un incontro con uno o più buoni insegnanti, non ci pare di per sè cogliere nel segno: incontri significativi per fortuna accadono, quando accadono, anche fuori dalle aule (“addirittura” sul lavoro, alla faccia di chi ormai lo vede solo come mortifera alienazione) e quindi non possono e non devono essere considerati un proprium solo della scuola.
Il problema posto dai giovani alla ricerca del nesso tra scuola, vita, famiglia, amici e lavoro, trova certamente un aiuto per molti aspetti decisivo in un incontro umanamente e culturalmente pregnante, ma ciò non rappresenta un’alternativa all’impegno affinché i diversi contesti di vita possano essere letti in una prospettiva sintonica, pena la riproposizione di un dualismo che non contribuisce certo a combattere la disarticolazione e la frammentazione della vita, conoscitiva e affettiva, dei nostri adolescenti.
Ripresentare un sapere che non sia in dissidio col saper fare e che si ponga naturalmente e non artificiosamente il problema dell’interesse e dell’utilità, in questi anni è stato uno dei criteri (e dei drammi!) che ci hanno guidati nella riprogettazione di laboratori di impresa simulata e di materie culturali che fossero insieme anche professionalizzanti (o viceversa) nei percorsi di Istruzione e Formazione Professionale. Si noti che porsi seriamente il problema dell’interesse-utilità tra l’altro spalanca di colpo la scuola verso la realtà “esterna” e apre orizzonti che oltrepassano la sua (spesso teorizzata e coltivata) autoreferenzialità.
Come osservarva in un recente articolo apparso su queste pagine Felice Crema, “l’interesse rappresenta, infatti, una dimensione del rapporto educativo che si lega strettamente al termine utilità. A che deve servire, essere cioè utile, l’impegno scolastico (ricordiamolo sempre, l’unico e solo impegno che la società pone a carico del giovane, in particolare nella minore età) se non a esercitare un ruolo nel mondo? In questione semmai dovrà essere la natura dell’utilità cui mirare, quale essa sia, dove la si trovi, soprattutto come debba essere resa presente all’alunno in modo tale da sostenerlo nel percorso”.
L’esperienza di questi anni ci spinge a dire che forse è venuto il momento di chiederci seriamente, rispetto al problema di una scuola in cui regnano verbalismo e autoreferenzialità del sapere, se la riproposizione delle discipline di insegnamento così come vengono proposte all’insegnante nel corso della sua formazione, siano parte della soluzione o parte dello stesso problema.
Si tratta di riconoscere un problema che interessa tutto il sistema formativo italiano (e non solo), che tocca la stessa istruzione professionale (di qualità, ammettiamolo, molto variabile), troppo spesso prigioniera della stessa dicotomia tra otium e negotium che caratterizzava il mondo antico e che oggi, sulla scia di una cultura formativa nata dall’incontro tra la posizione gramsciana e quella deweyana, appare dominante. Ed anche la cultura pedagogica (residuale) che, facendo riferimento al classicismo gentiliano, sembra opporsi a questa visione, in realtà (in virtù della comune radice idealistica?) muove da molti dei presupposti culturali che vorrebbe combattere. Anche qui sarebbe necessario un serio ripensamento di questi presupposti, ma di rado si trovano tentativi che vanno in questa direzione.
Una domanda mi si ripropone: perchè oggi è così difficile accettare come punto di partenza della proposta educativa quell’incredibile ora et labora che, rilanciando il lavoro (manuale!) come espressione della dignità ultima dell’uomo, in questo modo partecipe al lavoro incessante e operoso del Padre, ha rappresentato uno dei fondamenti di quella che oggi conosciamo come Europa?
Un’interessante proposta fatta due anni fa dalla Compagnia della Opere con il fascicolo “Una scuola che parla al futuro” partiva proprio dal considerare il problema del nostro sistema formativo tenendo assieme dimensione educativa e dimensione sociale e politica. Non varrebbe la pena di riprenderla, per sviluppare una riflessione su questi temi più adeguata alle condizioni effettive in cui si trova la nostra scuola?