Indecente. Ha usato questa parola, Pietro Barcellona, per definire – in una lunga lettera pubblicata su queste pagine – l’operazione di chi si sta opponendo alla nuova sinistra bersaniana, l’azione di coloro che «tornano in campo con i più vecchi argomenti per impedire che una coalizione di centrosinistra possa assumere il governo del Paese». È un’opera di difesa, dunque, la sua. Di difesa del Pd da una «vecchia conventio ad excludendum motivata dalla ridotta affidabilità della sinistra italiana, proveniente in parte dalla storia del Pci, rispetto alla questione della democrazia, degli indirizzi economici e della tutela dei valori tradizionali della nostra società». Il professore fa quindi una rilettura di sessant’anni di storia del Pci, proprio per far vedere che quel partito ha fatto sempre il bene dell’Italia. Ma su quella ricostruzione storica Roberto Chiarini, docente di Storia contemporanea nella Statale di Milano, non è molto d’accordo.
Chiarini, qualcuno non vuole il Pd al governo?
Ovvio: è normale. È la pura e semplice realtà dello scontro politico, democratico e dunque legittimo. La vera anomalia qui non è che qualcuno voglia escludere il Pd, ma la ricostruzione storica di Barcellona.
Perché?
Il primo problema è questa conventio ad excludendum. A me non risulta che ci sia stata una congiura. Tutti, se potessero, escluderebbero gli altri. La conventio ad escludendum ha resistito 50 anni non perché ci sia stato un patto alternativo contro il Pci, ma perché il Pci si è autoescluso in virtù di scelte di campo che evidentemente la maggioranza degli italiani ha ritenuto, per 50 anni, inammissibili.
Parla dei legami con l’Urss?
Ma certo. Il Pci aveva un’alleanza strategica oltreconfine, una solidarietà con i nemici dell’Alleanza atlantica e della maggioranza dell’opinione pubblica italiana. Che votava la Dc perché non voleva il Pci al governo. E questo è provato dal fatto che da Togliatti a Berlinguer tutta la politica del Pci è finalizzata a recuperare il suo deficit di potere coalittivo facendo sponda sulla Dc. Non a caso Berlinguer diceva che con il 51 per cento il Pci non poteva governare. Aveva perfettamente ragione. Fu lui a dirlo, non Almirante, o Piccoli, o Rumor. La logica dei blocchi era reale e interdiva al Pci il governo del paese, punto.
Lo ammette anche Barcellona, che però parla di accuse «strumentali al sistema di alleanze nel quale l’Italia si trovava inserita. Basta ricordare quale sia stata l’opera di Togliatti e del Pci nella fase costituente della nostra Repubblica».
Accuse strumentali? Durante Tangentopoli venne fuori che il Pci prendeva i soldi da Mosca. Questa è ormai una verità storica, comprovata da una valanga di documenti.
Ma secondo Barcellona il Pd «ha operato una vera e propria rottura con il proprio passato comunista».
Se il Pd non è mai stato comunista, perché adesso giustificarlo dicendo che ha abbandonato il comunismo? Che senso ha la pluriennale fatica di un Veltroni, il tentativo di far vedere che che il Pd è un partito nazionale e − appunto − democratico?
Dunque la lettura storica di Barcellona non regge?
Assomiglia tanto a un’operazione politica: quella di riscrivere il passato in funzione del presente. Lo si può fare, ma non così. Come si fa a dire che l’alternativa è tra monetarismo e keynesismo, quando Bersani si è già impegnato a rispettare i vincoli di Maastricht e il pareggio di bilancio? Ma allora, chi − per usare i termini di Barcellona − è più «monetarista» di Bersani? Se invece Bersani è keynesiano, perché fino ad ora ha sostenuto Monti? Si può essere keynesiani quando ci sono capitali inutilizzati, non quando si sta nella Bce, come Bersani ha tutta l’intenzione di fare.
La ricostruzione storica di Barcellona enfatizza il ruolo di Togliatti. La sua opera fu decisiva «nella fase costituente della nostra Repubblica».
È vero che Togliatti firmò l’amnistia, che era tale sia per i partigiani sia per i repubblichini. Barcellona sembra attribuirla alla magnanimità e alla vocazione democratica del Migliore, in realtà si trattava di una motivazione politica: certamente condivisibile, perché dopo una guerra civile occorre voltare pagina, ma quella scelta fu fatta nel quadro di una precisa strategia di conciliazione nazionale.
Cosa intende dire?
Il problema di Togliatti era quello di vivere da comunista in un Paese capitalista. Un problema che anche Stalin aveva chiarissimo. Il lavoro di Togliatti, in modo coerente, è stato quello di convertire un partito a modello giacobino in un partito di massa. L’«armistizio» che presiede all’accordo raggiunto in Assemblea costituente va visto su questa base ideologica.
È la famosa doppiezza di Togliatti?
Sì. Su di essa si sono scritte valanghe di libri, tutto lavoro inutile, a leggere Barcellona. Togliatti parlava al Paese e alla base del Pci. A questa faceva intendere che al momento giusto si sarebbe fatto il salto di qualità. Al resto del Paese diceva che il Pci è un partito democratico. Ma sapeva bene che queste due cose non potevano stare insieme e che la rivoluzione non si poteva fare; almento finché non sarebbe arrivato il momento, e infatti in Emilia i quadri del Pci avevano le armi nascoste ma erano pronti a usarle. L’armistizio c’era, sì, ma correva sul ciglio del burrone. È merito di Togliatti, insieme a De Gasperi, non aver lasciato che il Paese cadesse giù, ma lo ha fatto non perché era riformista − una parola, mi passi il termine brutale, che gli faceva schifo − ma per una ragione tattica: se non si può attaccare, si sta fermi.
È stato così anche dopo?
Ancora nel ’79, come si legge nelle sue lettere ad Antonio Tatò, Enrico Berlinguer è convinto di avere la ricetta per salvare il mondo dalla crisi attraverso il socialismo. Il socialismo di cui parla Berlinguer non è il welfare state ma il superamento della società capitalistica. Da cui l’odio per Craxi.
Continua Barcellona: «Togliatti fu inoltre il vero artefice della costruzione di un rapporto nuovo fra Stato e Chiesa, sanzionato nell’articolo 7 della nostra Costituzione, a riprova che la questione cattolica era per la dirigenza del partito una questione centrale…».
L’apporto di Togliatti è stato determinante, ma sempre nel quadro della stategia che sappiamo. In Italia senza la Chiesa e senza il partito dei cattolici non si poteva governare, quindi bisognava trattare. Questo Togliatti lo sapeva benissimo. Quindi doveva dimostrare alla Dc e alla Chiesa che su di loro, sul Pci, si poteva contare.
Cito ancora: «Nei terribili anni del terrorismo, il contributo che i comunisti italiani riuscirono a dare per sconfiggere i nemici dello Stato, che cercavano di mascherarsi dietro ideologie marxiste e leniniste, è stato decisivo per mantenere l’unità del Paese».
Il partito di Berlinguer ha dato un contributo decisivo alla sconfitta del terrorismo, ma solo dopo il ’76. Vogliamo dimenticare le «sedicenti Brigate rosse» dell’ondivago e imbarazzante periodo precedente? «Sedicenti» ovvero: guardate che dietro il nome ci sono i fascisti. Eh no. Mi chiedo come Barcellona possa contestare che la matrice delle Br fosse il comunismo: lo era eccome. Non è un caso che prima del ’76 il Pci volesse recuperare i «compagni che sbagliano»: compagni, appunto.
Veniamo al divorzio e all’aborto. «La linea scelta non aveva alcuna base ideologica antireligiosa ma soltanto una valutazione politica di tutela delle classi più deboli». E ancora: «Berlinguer scelse di appoggiare il referendum come male minore necessario per evitare il massacro delle donne povere» etc.
Ha ragione Barcellona nel dire che l’operazione rispondeva ad una logica politica: il Pci, come partito più forte dell’opposizione, si trovò con l’opportunità di capitanare una grande ondata antidemocristiana. Doveva essere la grande spallata, il punto culminante del piano del Pci per unificare l’opposizione, fiaccare la Dc e andare finalmente al governo. Non c’entrano le classi più deboli.
Al di fuori dei singoli punti della ricostruzione storica fatta da Barcellona, lei cosa vede in una posizione culturale come quella difesa dal professore?
Sono le tesi di una vulgata spicciola dei quadri del Pci prima e del popolo di sinistra poi, quel popolo che ora è rimasto nettamente minoritario perché la maggior parte dei dirigenti non ragiona più così. In generale, al di là delle tesi prettamente storiche, vi si può riscontrare la stessa mens che ha portato D’Alema a definire «moralmente discutibile» la discesa in campo di Monti. C’è una sinistra che pensa di avere una causa moralmente giusta e liberatoria e che pertanto non si capacita di non risultare vincente.
Che cosa manca secondo lei a questa sinistra?
Il punto è che in politica, quando non si vince, occorre ricominciare da capo guardando diritto ai propri limiti. Quando questo non accade, si oscilla tra la propria santificazione e il vittimismo. Dietro vi è l’idea di avere le ragioni di tutto, dalla storia alla giustizia sociale. “Ma come, abbiamo il 33 per cento e non ci lasciano governare?” Certo: si può avere il 49 e non governare lo stesso. Da questo scacco nasce l’idea di una democrazia non competitiva ma consociativa.
Cioè la vecchia idea prima togliattiana poi berlingueriana.
Esatto. L’ex Pci, dopo Tangentopoli, si convertì alla democrazia dell’alternanza, pensando di avere il potere a disposizione, ma se lo vide sfilare da Berlusconi. Il fatto è che Bersani, nel momento in cui sembra cercare un patto (consociativo) coi moderati, riporta indietro le lancette di questo Pd. I moderati non sono una componente del Pd «fuori posto», sono il centrodestra.
Barcellona però ha una visione molto severa del centro.
È una visione complottista, quella dei poteri forti che perseguono una difesa ad oltranza degli interessi economici. A Barcellona non vanno bene? Benissimo, lo dica a Bersani. Oppure, volendo allearsi con quei poteri, è di destra anche lui?
(Federico Ferraù)