Il tema del libro di Alberto Melloni, Amore senza fine, amore senza fini. Appunti di storia su chiesa matrimoni e famiglie ha sollecitato la mia fantasia. La tesi è che il Vangelo non sacralizzava la famiglia, anzi relativizzava il matrimonio, dando la precedenza all’unità della famiglia umana: questa almeno è la lettura di Luigi Accattoli nella sua recensione sul Corriere. A partire da questo, le Chiese dovrebbero ripensare su nuove basi il regime di sponsalità. Allora, ponendomi su un terreno a me più congeniale, mi sono chiesto se non valeva la pena rivisitare l’esperienza degli antichi per verificare, in parallelo, la validità di questa tesi. Che cosa pensano i pagani della famiglia?
Primo riferimento che balena in mente sono le parole di augurio che Odisseo approdato all’isola dei Feaci e privo di risorse rivolge a Nausicaa, la ragazza che vede sulla spiaggia, pregando di soccorrerlo: “Tali doni ti diano gli dèi quali brami nel tuo pensiero, un marito e una casa, e ti procurino propizia concordia: nulla vi è infatti di più buono e desiderabile di un uomo e una donna che reggono la casa in piena concordia di mente”. Questa dunque l’aspirazione più forte, il desiderio che sembra appagare ogni persona: una famiglia contraddistinta da armonia e unità di pensiero fra i coniugi. In nome di questo ideale Penelope aspetta il marito per venti lunghi anni rifiutando le avances dei pretendenti, e Odisseo nel suo girovagare rinuncia all’eterna giovinezza e all’immortalità (che gli era stata offerta dalla ninfa Calipso) pur di ritrovare la sua Penelope e condividere con lei il resto della vita.
Certo, ci sono anche situazioni di disordine: gli eroi omerici hanno concubine e figli illegittimi (amati quanto i figli legittimi), ma l’adulterio è colpa gravissima che suscita lo sdegno degli dèi, come ricorda lo stesso Zeus in un colloquio con la dea Atena (I libro dell’Odissea). Nel mondo latino, il primo pensiero va alle figure di Bauci e Filemone, i due anziani coniugi (ne parla Ovidio nelle Metamorfosi) che teneramente hanno condiviso tutta la vita fino all’estrema vecchiaia, tanto da suscitare la simpatia degli dèi. Si potrebbero anche richiamare esempi di amore coniugale che giunge fino al sacrificio di parte della propria vita (si pensi ad Alcesti per esempio). Si obietterà che questo è l’ideale, e che nella prassi delle vita quotidiana non sempre si riesce a incarnare questa tensione. L’affermazione nitida dell’ideale non impedisce la caduta, ma aiuta l’uomo a riconoscere il proprio destino e la propria vocazione.
Ma se già nel mondo pagano la famiglia è percepita come un valore importante, quale potrà essere la situazione in Palestina, un paese e un popolo la cui cultura spirituale si evolve in stretto rapporto con la Parola di Dio e la Rivelazione?
Nella vita quotidiana esistono l’adulterio e l’infedeltà, come è il caso dell’adultera del Vangelo (Gv. 8), ma sembra molto arduo sostenere che Gesù accetta il matrimonio “così come usava”. Il «neppure io ti condanno» con cui congeda l’adultera non va inteso come “la tua condotta non è censurabile”, bensì alla luce delle parole successive: «Va’, e d’ora in poi non peccare più». L’adultera è in una situazione di peccato, come in una situazione di peccato, peraltro consapevole, è la samaritana (“ha raccontato tutto quello che ho fatto”, dice), e l’assoluzione non cancella il dato di fatto del peccato, ma indica una possibilità infinita di perdono e di accoglienza.
L’occhio di Gesù però è rivolto all’ideale, rispetto al quale è presentata come inaccettabile la deviazione concessa dalle leggi mosaiche («Mosè per la vostra durezza di cuore concesse a voi di ripudiare le vostre mogli; ma all’inizio non è stato così» Mt. 19,8). Uomo e donna sono una sola carne e rappresentano una unità indivisibile (Mt. 19, 6). Gesù richiama i suoi discepoli ad avere costantemente fisso nel cuore l’ideale: «Voi dunque sarete perfetti, come perfetto è il Padre vostro che è nei cieli» (Mt. 5, 48), un richiamo peraltro rivolto a un’umanità, anzi a un creato lacerato dal peccato originale («tutta la creazione geme e soffre unitamente le doglie del parto» Rm. 8, 22): Gesù, e sui suoi passi la Chiesa, addita l’ideale, ferma restando una inesauribile capacità di perdono e di accoglienza del peccatore, perché, come ci avverte ancora San Paolo nel proseguimento del passo citato, «anche noi, che abbiamo il primo dono dello Spirito, a nostra volta gemiamo in noi stessi, in attesa dell’adozione a figli, del riscatto del nostro corpo». Dovranno dunque le leggi (e le parole della Chiesa) corrispondere alla durezza del cuore umano o ispirarsi all’ideale? Modalità e criteri potranno essere oggetto di discussione, ma i passi citati concedono ben poco spazio a relativizzazioni. Di tutto si può discutere, ma è scorretto far dire ai testi ciò che non dicono.