A pochi passi dalla Puerta del Sol, tra il via vai dei vicoli che fanno somigliare Madrid a una spensierata città di mare, troviamo La Casa Labra, un minuscolo locale fondato nel 1860 che oggi, dopo centocinquant’anni, è affollato da gente di tutti i tipi, come in passato. Vicino all’entrata, una vecchia insegna di metallo arrugginito, annuncia che se prohibe cantar, quasi a marcare che la prelibatezza del fritto di baccalà può istigare, da un momento all’altro, un’improvvisa e cruenta festa popolare. Infatti la frittura di pesce, di gran lunga superiore a quella di altri locali del centro, ha un gusto unico e inebriante, che non si dimentica facilmente.
Ma, nonostante l’insolito cartello appiccicato di lato allo specchio del bancone, all’interno della taverna, si assapora un clima di festa cui partecipano persone diversissime tra loro per ceto, per età e per provenienza culturale. Tra i tavoli si avverte il brillio di qualcosa di vivo, capace di accomunare tutti i presenti e di attrarre altre persone, generando un ininterrotto contagio di vitalità. Qui, nello spazio di pochi metri quadrati sono concentrati un popolo fatto di gente comune, una passione condivisa da tutti, un bisogno naturale e culturale – come il cibo – e la tradizione di gesti semplici ed elementari. Si assapora un clima che rimanda a quello delle grandi feste teatrali del ‘600, il siglo de oro, quando un teatro vivo e popolare conviveva con la necessità che lo faceva esistere e con tutti gli elementi della sua prosperità. Una strana convivenza con l’umano e una fortunata alchimia.
«Sa lei cosa è il teatro? Quando chiudono i negozi, la gente ci viene la sera, e si siedono per ordine l’uno dietro l’altro e poi si alza il sipario e succede qualcosa sulla scena come se fosse vero. Io guardo quella gente, e la sala è tutta una carne viva e vestita. Aderiscono alle pareti come mosche fino al soffitto. L’uomo si annoia e l’ignoranza gli sta attaccata fin dalla nascita. E non sa nulla di come si comincia e si finisce, per questo egli va a teatro. E là guarda se stesso, le mani posate sui ginocchi. E piange e ride e non ha nessuna voglia di andarsene».
Claudel lancia questo prezioso richiamo a ricominciare il teatro da dove comincia, cioè dalla vita e a riappropriarcene come di uno spazio umano in cui vedere e sperimentare che quanto più si vive, tanto più si è artisti e quanto più si è artisti, tanto più si vive intensamente. Sono gli anni in cui il Titanic colpisce un iceberg, si schianta, affonda e scompare per sempre in fondo all’oceano.
Oggi, in questa grande metropoli, come nelle nostre case, sappiamo riconoscere regole e segreti di grandi eventi, partecipiamo attivamente a performances di ogni tipo, siamo esperti intenditori di concerti e spettacoli dal vivo e diventiamo improvvisati maestri di spettacolarità di ogni genere, ma fatichiamo a trovare luoghi carichi di un significato che si comunica e ci accomuna.
Luoghi in cui l’arte, la scrittura, la musica e il teatro sono semplici strumenti per comunicare un’elementare esuberanza di vita. «È la stessa irrinunciabile esigenza dell’uomo ad esprimersi con la voce, con le parole, con i segni ad avere a che fare con quello che noi chiamiamo mistero. È un’esigenza indipendente da ogni progetto e da ogni ipotesi di una sua concreta realizzazione, è qualcosa che sta prima che c’entra con la vita stessa, con la sua originaria struttura. Per questo le forme e le metafore che da questa irrinunciabile esigenza son create, sono strettissimamente legate al mistero, al mistero della vita stessa. Anche al teatro».Testori invoca una vitalità che noi tutti conosciamo perfettamente, la stessa che si assapora tra i tavolini della Casa Labra, come quella che ha ispirato le opere di Shakespeare.
Le linee e gli scambi dell’intricata mappa della metropolitana, amplificano il rischio di non ritrovare la via. Corrono le fermate. Alonso Martinez ricorda il personaggio di un antico racconto, Ciudad Lineal il nome di un tempio primitivo, Principe de Vergara evoca un condottiero misterioso, poi appaiono San Bernardo, Diego de Leon, Guzman el Bueno, San Cristobal, Alfonso XIII. Immagini del passato che chiedono, anche attraverso il teatro, di dare voce alla vita, di agire nel presente, di appartenere all’oggi e di essere contemporanei. Ma “nel teatro, per secoli, si è avuta la tendenza a mettere l’attore a una distanza remota, su una piattaforma, inquadrato, decorato, illuminato, dipinto, su alti coturni, quasi a voler persuadere il profano ch’egli sia sacro, che la sua arte sia sacra.
Era venerazione, questa, oppure dietro c’era la paura che qualcosa venisse allo scoperto se la luce fosse stata troppo forte, l’incontro troppo ravvicinato? Oggi noi abbiamo messo a nudo la mistificazione, ma ci stiamo accorgendo che un teatro sacro è ancora ciò di cui abbiamo bisogno. Dove cercarlo? Tra le nuvole o sulla terra? E allora cerchiamo con la stessa insistenza e la stessa lucidità di Peter Brook, cerchiamo se prohibe cantar sul metallo arrugginito vicino all’entrata, cerchiamo incessantemente quella prelibatezza che, da un momento all’altro, può istigare un’improvvisa e cruenta festa popolare.