Inizia un nuovo anno scolastico con alcune buone notizie, come quelle contenute nel decreto legge appena approvato dal governo, ma inserite in una cornice di fragilità, se pensiamo alla centralità della formazione nella nostra “società della conoscenza”, per l’impianto conservatore della scuola italiana, cioè statalista.
Centralità, dicevo, che non può essere solo una parola d’ordine, se non produce quelle conseguenze che sono pure necessarie, in termini di efficacia dei risultati, e non solo delle intenzioni.
Pensiamo solo alla giusta abolizione dei “bonus maturità”, introdotti come norma dal governo Prodi e resi effettivi dal ministro Profumo solo pochi mesi fa, forieri di ingiustizie e iniquità. La loro abolizione dice una cosa importante, a chiare lettere, che cioè gli esami di maturità non contano più nulla. Cosa che tutti sanno, perché non contano le prove alla fine di un corso di studio, ma quelle all’inizio. Oggi una scuola efficace, in poche parole, è quella che sia capace di orientare le scelte dei giovani in relazione ai talenti, alle attitudini e alle competenze maturate e raggiunte. Una scuola, in sintesi, in grado di accompagnare le scelte di vita, vero investimento del futuro dei nostri ragazzi, se non di un intero Paese.
Nel decreto appena approvato c’è, in questi termini, una piccola luce: si parla di “orientamento”, cioè di scuola-orientamento. Non una scuola cioè che seleziona, ma che, appunto, orienta, per rispetto dei talenti e delle intelligenze diverse. Una scuola che non si accontenta delle intenzioni, ma che verifica il proprio “servizio pubblico” a partire dai risultati. Cosa chiedono, infatti, i nostri ragazzi e le loro famiglie quando si iscrivono ad una scuola: posso affidare mio figlio alle vostre cure, per il bene del suo futuro, posso cioè fidarmi di voi, chi mi garantisce della bontà del vostro “servizio”?
In relazione a queste domande, anche le ultime scelte del governo andrebbero riviste, se non rovesciate, nell’ordine dei fattori, per le garanzie sociali del servizio richiesto. È questo il tratto conservatore e statalista della scuola italiana, ben lontana dai migliori modelli europei.
La buona scuola, dunque, non seleziona, ma accompagna, orienta e previene l’insuccesso scolastico e favorisce lo sviluppo armonico dei talenti individuali. Su questo punto, che è il principio base dell’idea di “servizio pubblico”, dovremmo invece verificare la qualità del lavoro di docenti, presidi, di tutti gli operatori della scuola.
Perché non dovrebbe più accadere quello che Il Giornale di Vicenza nei giorni scorsi ha messo in evidenza, cioè il ritorno alla comoda e deresponsabilizzante idea della facile bocciatura per sola responsabilità degli studenti. Addirittura, si è verificato in alcune scuole vicentine che degli studenti siano rimasti bocciati per una sola insufficienza.
Che è come dire: per un 5 in una sola materia sono costretti a ripetere un altro anno, cioè a ristudiare il 95 per cento delle materie valutate sufficienti. Per questo motivo la scuola in Europa non prevede le bocciature prima dei 16 anni, ma solo forme di valutazioni orientanti. I docenti che si sono resi responsabili di queste cattive scelte, loro sì andrebbero riselezionati, cioè riverificate le loro competenze didattiche, ma anche i presidi che le hanno avallate.
In poche parole, la scuola deve aiutare i giovani a trovare, per quanto possibile, la loro strada nella vita. Ed i migliori docenti sono quelli che mettono cuore e passione educativa, al di là del possesso di poche o molte conoscenze su questa o quella materia. Sono quelli che fanno brillare gli occhi, che trasmettono il gusto della ricerca personalizzata. Sapendo che nessuno studente è privo di talento, ma che i talenti sono diversi, che vanno indirizzati e orientati verso la loro piena realizzazione.
Abbiamo bisogno, oggi più di ieri, piu che di docenti che insegnano dall’alto, che usano il voto come arma di potere, degli educatori, dei suscitatori di coscienza, dei testimoni, delle guide. Con la crisi dei saperi oggi, più che sui contenuti autoreferenti delle varie discipline, i giovani hanno bisogno, attraverso gli stessi contenuti e le nozioni, di sviluppare metodi e percorsi capaci di orientarli verso sempre nuovi contenuti, competenze, conoscenze. Educare a scuola è un “passare attraverso”. Su questo principio dovremmo rimodulare la selezione dei migliori docenti e presidi, oltre il nostro finto egualitarismo.
Ai giovani, infine, è giusto dire la verità. Perché questa ricerca come “passare attraverso” implica anche il gusto della fatica quotidiana, del sano sudore. Giusta integrazione, oltre la passione per i propri talenti.
Solo in questi termini, potremo dire, al di là dell’oramai quotidiano ottimismo della volontà del premier Letta, che la scuola è quel servizio pubblico che combatte le diseguaglianze, le iniquità, la propria inefficacia. Non bastano più, cioè, facili parole d’ordine e qualche investimento più o meno a pioggia. Ci vuole il senso della “restituzione sociale” insita nel concetto di “servizio pubblico”, ancora oggi assente.