«I russi non amano, ma si innamorano». Troviamo questa affermazione nel diario di padre Aleksandr Shmeman, uno dei più noti pensatori dell’emigrazione russa, scomparso nel 1983. L’innamoramento, dice Shmeman, si distingue dall’amore perché indebolisce le facoltà intellettuali concentrandole su un particolare staccato dal tutto. Se l’autentica cultura mette il particolare in rapporto con l’assoluto, la subcultura ha come caratteristica l’esaltazione del particolare chiuso in se stesso e preso come assoluto. Così la libertà, slegata dalla vita diventa arbitrio, la felicità si disintegra nelle voglie, la scienza si chiude nella specializzazione, l’arte diventa una tecnica, l’economia venerata come idolo prepara inesorabilmente la crisi, il progresso è condannato al degrado, e così di seguito.
Shmeman vede l’origine storica di questa “frantumazione” nel Rinascimento, letto come rivolta contro il cristianesimo in nome della persona. L’autonomia della persona, passata attraverso l’illuminismo, il razionalismo, lo scientismo, è giunta a maturazione diventando un idolo, e com’è destino di ogni idolo, si è autodissolta nel relativismo.
In questo processo di frantumazione i cristiani hanno una precisa responsabilità. Se infatti il Rinascimento è stato una rivolta contro il cristianesimo è anche perché i cristiani avevano collaborato a “frantumare” la fede in tante devozioni particolari che mettevano in ombra “Cristo tutto in tutti”. «Sono degli innamorati, ma non sanno più amare». Le singole parti hanno il sopravvento sul Tutto. Ed evidentemente questo discorso non vale soltanto per i russi.
La cosa più tremenda nella storia attuale è la quasi completa assenza del cristianesimo come concezione capace di illuminare tutti gli aspetti della vita, di creare storia, di esaltare le potenzialità umane.
Ci sono stati due momenti di svolta nella dissoluzione della presenza del cristianesimo nella coscienza umana, il primo, come si è detto, è stata la rivolta in nome della persona nel Rinascimento. Il secondo, nel nostro secolo, è stato la rivolta contro il cristianesimo “in nome dell’impersonalità”, quando la persona, trasformata in idolo, nella sua arbitrarietà si è frammentata e per garantirsi un’improbabile sopravvivenza, si è aggrappata all’ultima traballante sponda: esaltare ogni frammento particolare come se costituisse il significato sufficiente del tutto. Shmeman sottolinea che anche quest’ultima rivolta del laicismo moderno contro il cristianesimo è, più in profondità, una rivolta contro il tradimento operato dal cristianesimo contro se stesso. Ciò che il cristianesimo aveva rivelato come novità assoluta, verità assoluta, bene assoluto, felicità autentica, i cristiani non sono stato capaci di viverlo. «Hanno trasformato il cristianesimo in una religione», peggio, in una religione burocratica. I cristiani hanno tradito il cristianesimo delle origini: allora tutto scaturiva dalla conoscenza di Cristo, dal suo amore, «oggi invece tutto nasce dal desiderio di santificarsi». Alle origini si approdava alla comunione attraverso la sequela di Cristo, oggi si tende a ridurre Cristo a puntello dei nostri progetti, magari spirituali; lo usiamo per condannare ciò che noi deploriamo, a destra come a sinistra, non ha importanza.
Per Shmeman non si tratta semplicemente di tornare al passato. Anche il tradizionalismo, esattamente come il progressismo, può diventare un idolo e il cristianesimo può diventare semplicemente un puntello. La tradizione vale se restaura la centralità di Cristo in tutti i tempi e per tutte le scelte. Se la verità è Cristo, è soltanto in lui che la vita fiorisce in tutti i suoi aspetti. «Tu che sei presente in ogni luogo ed ogni cosa porti a compimento, vieni ad abitare in noi» dice la Liturgia bizantina invocando lo Spirito. In questo modo il particolare non è sacrificato a Cristo, al contrario, soltanto in Lui può raggiungere la sua piena maturazione. «Ogni cosa che da Lui si allontana invecchia, e ogni cosa che a Lui si avvicina si rinnova. E sorprendentemente la sua novità deriva da ciò per cui Egli è l’Antico» diceva l’abate Guerrico nel XII secolo. In Cristo tradizione e progresso non sono termini contradditori, ma semplicemente antinomici, cioè più profondamente veri.