Ha superato le 22.000 ore sostanzialmente ininterrotte di osservazioni, scrutando il cielo nella banda della radiazione infrarossa e sub millimetrica dalla sua speciale postazione in orbita a 1,5 milioni di km dalla Terra: ora l’osservatorio spaziale Herschel dell’ESA ha terminato la fase operativa della missione e si appresta ad essere spedito verso una orbita stabile “di parcheggio” intorno al Sole diventando praticamente un asteroide. Ma la sua performance è stata straordinaria e le prime analisi dei dati promettono grandi risultati. Ne ha tracciato un bilancio per Ilsussidiario.net Anna Maria Di Giorgio, dell’INAF-IAPS, responsabile delle attività scientifiche italiane per la missione Herschel.
Vi aspettavate prestazioni così elevate?
Effettivamente le aspettative sono state superate. Per Herschel era prevista una vita di 3,5 anni dal lancio del maggio 2009, ma è vissuto sei mesi in più, con un minor consumo di elio rispetto alle previsioni (l’elio superfluido è il refrigerante indispensabile per tenere in piena efficienza i sensibilissimi strumenti di bordo, ndr). È stato un ottimo risultato. E non solo per la durata ma soprattutto per i dati raccolti, in quantità molto maggiore di quanto ci si aspettava. Infatti, l’altro notevole elemento di eccellenza è stata l’efficienza nell’utilizzo del tempo di bordo: in media si è osservato per 19 ore al giorno, cioè quasi tutto il tempo non passato in collegamento con la Terra (ogni giorno il satellite in orbita osservava autonomamente per 21 ore e ne aveva tre di contatto con la base per scaricare i dati e caricare i comandi per le successive osservazioni, ndr).
Relativamente a queste performance tecniche, quale è stato il ruolo dell’Italia?
L’Italia ha partecipato alla costruzione dei tre strumenti di bordo, con la responsabilità della realizzazione dei tre computer (Carlo Gavazzi Space, ora Compagnia Generale dello Spazio) e dei software di controllo (Iasp-Inaf). Sempre in Italia è stato prodotto (Galileo Avionica, ora Selex Galileo) componente fondamentale, un filtro, dello spettrometro HIFI (Heterodyne Instrument for the Far Infrared) ad altissima risoluzione. Abbiamo poi contribuito con personale scientifico e tecnico all’allestimento dei tre Instrument Control Center (UK, Olanda e Germania), collaborando alle fasi di test prima della consegna, ai test di integrazione degli strumenti sul satellite e poi durante tutta la vita operativa degli strumenti a tutti i controlli, le calibrazioni, le analisi dei dati, l’ottimizzazione delle procedure di riduzione dei dati a Terra. Sempre a livello tecnologico, la Tales Alenia Space ha costruito il modulo di servizio del satellite, cioè l’interfaccia tra satellite e razzo vettore, con i relativi sensori di controllo e parte dei pannelli solari; la Selex Galileo ha anche realizzato gli star trakers, cioè i particolari sensori che servono a tenere sotto controllo l’assetto del satellite.
Ma anche il contributo italiano nell’attività scientifica è stato rilevante; quali sono stati i principali risultati?
Mi focalizzerò su quelli che hanno visto il nostro maggior coinvolgimento. Uno degli scopi prioritari della missione era di fare luce sui meccanismi di formazione di stelle e pianeti: lavorando nell’infrarosso, la missione ha permesso di osservare le nubi fredde, ricche di gas e polvere, al cui interno stanno le regioni di formazione stellare. Tali nubi sono state quindi osservate, sia nella Via Lattea che in altre galassie, utilizzando le camere di bordo e lo spettrometro HIFI; con alcuni risultati fondamentali. Il primo riguarda la scoperta, all’interno di tutte le nubi di formazione stellare, dell’esistenza di una rete intricatissima di filamenti. In realtà è stata la conferma di una situazione già intravista in precedenza ma con strumenti poco efficaci. Molti di questi filamenti stanno collassando sotto l’effetto del proprio peso e ciò determina la nascita della stella. Ora gli astrofisici sono al lavoro per aggiornare le teorie della formazione stellare e adeguarle ai dati osservativi. Resta ancora da capire come si generano i filamenti e come la materia resti confinata al loro interno; e successivamente come si siano formati i pianeti dai dischi protoplanetari che circondano le stelle.
Ci sono novità anche circa la presenza di acqua nel cosmo?
In molte delle stelle in formazione si è potuta confermare la presenza di acqua. Uno dei risultati resi noti solo da pochi mesi – da un gruppo guidato dall’italiana Paola Caselli – è la presenza di una riga dell’acqua nello spettro di un nucleo di una stella che si sta ancora formando ed è in fase di contrazione gravitazionale; da notare che in quella stessa nube è stata trovata una quantità di vapor d’acqua tale da poter riempire più di 2000 volte tutti gli oceani della Terra. Un risultato eclatante, a conferma che l’acqua presente nel nostro Sistema Solare, e in special modo sulla Terra, è un’eredità della nube primordiale dalla quale il sistema stesso ha avuto origine.
Le osservazioni nel lontano infrarosso permettono di misurare oggetti freddi o lontani; così Hershel ha potuto fare una sorta di censimento dell’universo lontano, cioè di contare le galassie lontane. Uno dei risultati più recenti, che vede implicati molti ricercatori italiani degli osservatori di Padova, Trieste e Roma, è quello che ha combinato le potenzialità del satellite con quelle del telescopio terrestre Keck (Mauna Kea Observatories, Hawaii) per misurare il red shift delle galassie e quindi le distanze. Nelle galassie distanti sono stati rivelati tassi di formazione stellare lungo tutta la storia dell’universo e si è così potuto confermare che galassie di età superiore ai dieci miliardi di anni hanno tassi di formazione stellare equivalente alla nascita di molte migliaia di masse solari per anno; il che, portato ai giorni nostri, darebbe le galassie infrarosse più brillanti tra quelle note. È una scoperta che ci aiuterà a comprendere la formazione degli elementi pesanti, la storia delle galassie e delle strutture cosmiche a grande scala.
E per quanto riguarda il cielo più vicino a noi?
Sono stati osservati alcuni asteroidi; in particolare a gennaio 2013 è stato intercettato Apophis nel suo cammino verso la Terra: si sono dovuti rimodulare i piani osservativi della missione ma così è stato possibile puntare il telescopio sull’asteroide e misurarne alcune proprietà fisiche, ricavando informazioni che saranno utili agli astronomi per definire le sue posizioni future: si pensa che nel 2029 Apophis si avvicinerà al nostro pianeta a una distanza di circa 36.000 km, che è quella alla quale orbitano i normali satelliti per telecomunicazioni.
La fase operativa della missione è finita ma non il lavoro degli astrofisici: c’è ancora molto da studiare?
Consideri che il 90% dei dati raccolti da Herschel non è ancora stato analizzato: i dati sono stati, come diciamo noi , “ridotti” e sono state create mappe visibili e utilizzabili ma l’analisi scientifica e il confronto con i modelli teorici è ancora in gran parte da fare. Vorrei sottolineare in proposito un fatto significativo: in questa, come in altre missioni nell’infrarosso, i dati raccolti non sono di proprietà di chi ha realizzato gli strumenti ma sono missioni-osservatorio, cioè tutta la comunità astronomica internazionale ha potuto prenotare tempi di osservazione e tutte le proposte selezionate hanno visto i loro programmi portati a termine durante la missione.