Nella recente evoluzione dell’ordinamento universitario, in particolare con la legge Gelmini (30 dicembre 2010) che cancella le Facoltà e le rigenera sotto altra veste all’interno dei Dipartimenti, sono sempre più frequenti le situazioni di disagio, di incomprensione, di disorientamento generale nel tentativo di arrivare a una enunciazione innovativa del sapere, secondo le teorizzazioni formulate in ambito ministeriale.
La spinta verso la creazione dei Dipartimenti a geometria variabile, cioè dove possono convergere discipline non tradizionalmente a contatto, avrebbe dovuto sviluppare, secondo la logica del MiUR, nuove sollecitazioni alla curiositas del singolo, quindi un nuovo modo di dialogare attraverso l’uso di un vocabolario più ricco di termini scientifici e logici, di fraseologie, di interazioni basate sul concetto di complementarietà.
L’innovazione, in questo caso, non dipenderebbe dalla utilizzazione di strumenti particolarmente avanzati sul piano tecnologico, ma dalla constatazione che la lettura e l’interpretazione della realtà fenomenologica, sotto il profilo olistico, può fornire livelli di conoscenza molto più ingegnosi che non la progressiva e specializzata intelligenza di singoli oggetti, talora non necessariamente in relazione tra loro.
In qualche misura, alcuni ricercatori universitari hanno intuito che il processo di speculazione della realtà, così saldamente parcellizzato nei settori scientifici disciplinari, soffre di una sorta di anemia o anoressia culturale, dalla quale emerge una insoddisfazione profonda sia della materia oggetto di studio, ma, ancora più drammaticamente della propria vita, del proprio modo di esprimersi, di confrontarsi con gli altri, nel senso che ricerca e realizzazione della vita necessitano di unità e di equilibrio.
Ma chi sono questi altri? Sono, quasi sempre, soltanto gli afferenti allo stesso settore scientifico disciplinare, che si danno appuntamenti, si parlano e si ascoltano ai congressi nazionali e internazionali, dove il parametro di confronto è unicamente percepibile nel bisogno di eccellere, nel tentare di distinguersi per la quantità di articoli prodotti e per ottenere rapidamente qualche significativo successo accademico.
Da qualche decennio, grazie anche alle non particolarmente felici riforme universitarie, il lavoro del ricercatore sembra ridursi a livelli di pressapochismo esasperato, dovendo assolvere, come compito precipuo, il raggiungimento delle misure previste dall’ANVUR per la modalità di calcolo degli indicatori da utilizzare ai fini dell’abilitazione scientifica nazionale.
La conoscenza è diventata un termine desueto, da dilettanti, riferibile in qualche misura solo alla vaga immagine della filosofia, che, nella concezione comune, è considerata spesso, un modo di pensare astratto, forse anche astruso, quindi inutile o addirittura dannoso all’imporsi del particolare e all’oggettività della sua analisi.
Esattamente il particolare dilaga in mille e più itinerari cosparsi di elementi e di sostanze dense e scomponibili, tutti chiaramente attinenti al soggetto che lo coltiva e che gli attribuisce connotati, proprietà, peso scientifico, valenza nazionale ed internazionale…..
Dunque, che fine ha fatto il sapere nelle università italiane? Per le nuove generazioni di ricercatori, dove è possibile trovare un senso nell’approccio alla realtà? Quale dimensione del vero, quale educazione alla conoscenza si è resa incontrabile attraverso le lezioni quotidiane nelle aule universitarie? Nessuna statistica, per quanto accurata, potrebbe mai illuminare con risposte attendibili domande così complesse.
Tuttavia, basta vivere il presente per accorgersi del valore della vita, dell’educazione, della cultura, della conoscenza, dell’umanità, tutti elementi che si possono dedurre, in termini generali, dall’andamento della politica, dell’economia, della finanza, della cultura, delle relazioni tra i popoli. L’impressione che si ottiene, solleticando le corde ormai logore dei saperi istituzionali nelle varie università italiane, è una restituzione di suoni discordanti, fuori dall’armonia di un’orchestra, il cui direttore sembra essersi dimenticato l’uso della bacchetta, cioè del ritmo, del respiro con cui coordinare le potenzialità dei singoli strumenti e dei variegati saperi.
Ma, in misura ancora più rilevante, sembra venir meno un sistema di alimentazione dell’individuo, che sia in grado di sviluppare energia, desiderio di conoscenza, passione infinita per trasmettere desiderio e inclinazione al vero agli studenti, ai colleghi, alla società stessa….
Se questo sta realmente accadendo, è perché l’umanità del ricercatore è considerata da lui stesso suvvalente all’oggetto del suo lavoro e perciò indegna di condividere il metodo di ricerca scientifica, come se l’eventuale scoperta, analisi o scomposizione di un elemento qualsiasi della realtà non dovesse essere contaminato da una passione profonda per la ricerca del vero….