Chi era Romano Guardini? La domanda merita di essere nuovamente posta, in queste settimane nelle quali si ha notizia di diverse iniziative a lui dedicate, nel quarantesimo anniversario della morte (Monaco di Baviera, primo ottobre 1968).
Una prima risposta – a prima vista un po’ banale, quasi anagrafica – suona: Guardini è stato un pensatore e un teologo di origine italiana, nato a Verona nel 1885, che ha però trascorso quasi tutta la vita in Germania. Lì, dopo aver compiuto gli studi inferiori, cambia per ben due volte facoltà universitaria e riconosce di essere chiamato al sacerdozio. Si dedica, finalmente con gusto e con passione, alla teologia, e dopo l’ordinazione continua per una decina d’anni gli studi, fino a conseguire, tra difficoltà e resistenze di vario genere, l’abilitazione all’insegnamento accademico. Nel 1923 gli viene conferita una cattedra di Filosofia della religione e visione cattolica del mondo, istituita presso l’Università di Berlino – il più prestigioso, ma anche il più laicista degli atenei tedeschi. Qui insegna, con grande entusiasmo di studenti e ascoltatori, fino al 1939, quando è costretto dal regime nazista a lasciare il ruolo.
Basterebbero già questi tratti per avvertirci che siamo di fronte a una figura eccezionale e a un’opera di grande valore – “pionieristica”, la definì il teologo Von Balthasar, che ebbe modo di frequentare i suoi corsi a Berlino. Ma ci sono ancora un paio di argomenti, che possono accrescere l’interesse per Guardini.
Il primo. Già dalle superiori, poi ancor più in tempo di guerra, Romano sperimenta non soltanto l’ambivalenza, ma anche l’opposizione fra le sue doppie “identità”: quella italiana, d’origine, e quella tedesca, acquisita attraverso la formazione scolastica e culturale. Sarà l’amara e tragica fine del conflitto a fargli intravedere e tracciare, nel comune radicamento di entrambe le identità nella civiltà europea e cristiana, la via per superare ogni antagonismo nazionale, politico e culturale. Europa: compito e destino, così Guardini intitolerà una delle più mature riflessioni su questo tema, che lo accredita come uno dei più alti – e primi, in ordine di tempo – “spiriti europei”, cui guardare per essere all’altezza delle sfide e dei compiti posti oggi dall’integrazione dei popoli e dal dialogo fra le culture.
Il secondo tratto lo suggeriscono i giovani della Rosa Bianca, che leggevano e consideravano i libri di Guardini come una vera e propria robusta “vaccinazione antitotalitaria”.
È la sua grandezza come educatore.
Essa ha lasciato un segno su almeno tre generazioni di giovani, tedeschi e poi europei.
La generazione che lo ha immediatamente conosciuto come insegnante di religione e assistente ecclesiastico a Magonza, la città del suo primo ministero sacerdotale; quella che lo ha poi incontrato nelle aule dell’università e nei vari momenti di raduno del Quickborn, uno dei movimenti di studenti universitari cattolici più vivaci del periodo fra le due guerre; e quella che ha continuato a guardare a lui come a un maestro, saggio e chiaroveggente, nel secondo dopoguerra, quando cominciava a diventar chiaro, a chi voleva veramente vedere le cose, che l’epoca moderna volgeva al termine e che la scienza, la tecnica e la società di massa ponevano l’uomo di fronte a sfide e responsabilità storiche che non potevano più essere affrontate con la fede illuminista e positivista nel progresso e nell’evoluzione naturalmente buona dell’individuo e della società.
Tre generazioni, dunque. La nostra può essere la quarta.