Il dibattito che si è acceso attorno al futuro degli istituti tecnici, ha evidenziato un grave allontanamento degli stessi dal mondo del lavoro, secondo una direzione opposta a quella che ha determinato la loro nascita nel 1931. Sarebbe interessante indagare sulle cause di tale allontanamento, dettato non da necessità interne alla scuola quanto da spinte sindacali-politiche e da una falsa cultura egualitarista che ha voluto cancellare le differenze tra studi tecnici e studi liceali.
Bene se oggi se ne parla.
Negli ultimi anni la scuola non è rimasta però ferma e indifferente a questo problema: ormai tutti gli istituti tecnici che io conosco hanno introdotto stage di lavoro in azienda e progetti di alternanza scuola-lavoro; con un difetto però: sia gli uni che gli altri non hanno una ricaduta effettiva sulla programmazione complessiva del corso di studi, né sulla valutazione di alunni e scuola, fino ad essere totalmente ignorati nelle prove d’esame di stato.
È evidente che non ci si può limitare a queste iniziative e perciò ben venga la proposta di un comitato tecnico-scientifico con esperti del mondo del lavoro tra gli organi di governo degli istituti tecnici. D’altra parte mi chiedo se un istituto tecnico legato al territorio non abbia bisogno per definizione di un’autonomia assai più ampia nei meccanismi di governance, che preveda autonomia nella definizione degli organi di governo, nella gestione delle risorse, nel reclutamento del personale, nell’organizzazione dell’attività formativa, come sostiene la recente ricerca su L’istruzione tecnica pubblica sul Quaderno n. 8 dell’Associazione TreeLLLe.
All’interno di tutto questo discorso, c’è un punto però che non mi convince: la riproposizione, in termini capovolti, della vecchia contrapposizione tra cultura umanistica e cultura tecnico-scientifica.
Sempre secondo la ricerca di TreeLLLe, nella scuola sarebbe vincente «una visione che privilegia l’‘uomo colto’ in senso letterario-umanistico e conseguentemente prevale la cura per la bella scrittura, il saper parlare, la parola ‘parlata’ contro i numeri, le misurazioni, l’osservazione, il fare e il verificare». Dunque: da una parte la parola vuota, dall’altra la concretezza del dato e la pratica dell’esperimento. Da un lato il regno dell’opinabile, dall’altro il regno della certezza.
Ne siamo sicuri?
Lavoro, tecnica, scienza, sarebbero l’antidoto al vuoto che terrorizza non più solo gli studenti, ma anche gli insegnanti. Non ho potuto non leggere questa idea in alcuni pronunciamenti di insegnanti delle materie scientifiche seguiti alla proposta delle scienze integrate per gli istituti tecnici.
Ora io mi chiedo: perché dovrebbe essere più concreta la reazione chimica di due elementi, sperimentata in laboratorio, che il dolore della madre Cecilia scolpito nel XXXIV capitolo dei Promessi Sposi?
C’è più realtà nella formula del cemento armato o nella guerra mondiale?
Evidentemente qualcosa non funziona.
E ancora: si può dire che lo studente che sa eseguire bene un esperimento di chimica in laboratorio abbia acquisito un metodo scientifico? Esso richiede anche osservazione, capacità di elaborare un’ipotesi, rigore logico…
D’altra parte sono anni che nelle scuole si insegna che l’italiano è uno strumento di comunicazione e la letteratura si può ridurre alle sue strutture di genere, figure retoriche o di costruzione… Una lingua senza vita, una letteratura senza tradizione, morta, a cosa può servire?
Scientismo da un lato, nominalismo dall’altro, sono due facce che convivono nella cultura scolastica italiana e che finora hanno prodotto disaffezione e scarsi risultati.
Credo che la questione si debba riproporre ad un livello che è identico per l’insegnante di qualunque disciplina: con quale realtà sono implicato insegnando?, quale esperienza della realtà sto facendo con gli alunni?
L’istituto tecnico deve realizzare la sua vocazione, tecnica appunto, ma sarebbe una battaglia persa se ciò non avvenisse nella collaborazione non esteriore ma sostanziale tra le discipline indispensabili a quel corso di studi, preoccupate non tanto di salvaguardare la propria autonomia, quanto di rendere possibile agli allievi il possesso critico della materia.
(Patrizia Cazzaniga)