Chiedimi se sono felice. E gli studiosi dell’Istituto di Ricerche Politiche e Socioeconomiche IARD lo hanno chiesto davvero a un campione di docenti nella Terza indagine nazionale sulle condizioni di vita e di lavoro degli insegnanti nella scuola italiana, svolta nel 2008 con il sostegno del Ministero della Pubblica Istruzione e della Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo. Ne è appena uscito un libro report Gli insegnanti italiani: come cambia il modo di fare scuola. La risposta a questa domanda è rimbalzata su molte testate e lanci di agenzia, probabilmente perché inattesa e per alcuni versi controtendenza: l’82 per cento dei docenti si è dichiarato soddisfatto della sua professione e pronto a rifare la stessa scelta professionale.
Sorprendente rispetto al cliché dell’insegnante deluso, bistrattato, vittima di un sistema che lo penalizza economicamente e pertanto depresso e demotivato nel suo agire fra colleghi e nel rapporto coi giovani studenti. Probabilmente un dato in negativo non avrebbe fatto così notizia, semmai si sarebbe confuso nella solita tiritera sulla scuola.
Come ogni indagine può darsi che anche questa possa – o forse debba – essere sottoposta a critiche di strumenti e metodo, tuttavia non possiamo negare che essa almeno ponga una questione di per sé interessante. Ossia la pensabilità della soddisfazione da parte dell’insegnante, laddove tutto sembra congiurare contro, quasi contro ogni speranza. Questa sì che è una buona notizia. Per i docenti in primis, ma forse ancor più per gli studenti.
Di fronte al pericoloso cinismo che serpeggia nei discorsi e negli atti dei più giovani il fatto che qualcuno si dichiari soddisfatto può infatti risultare il fattore chiave per scardinare la cattiva logica secondo la quale tutto è uguale, piatto, indifferente. Ma soprattutto secondo cui niente è sufficiente e appagante, in un costante bisogno di qualcosa di più, dentro una continua bulimia di nuovi stimoli ed eccitazioni ad intensità crescente.
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La soddisfazione va proprio a colpire questo punto: è saper dire satis, mi basta, va bene così, non c’è bisogno di aggiungere altro. Dove accontentarsi è un caso di lealtà, non di codardia o rinuncia. Esattamente come al termine di un buon pasto con amici con cui si è stati bene a tavola, senza bisogno di abbuffarsi.
Ammettiamolo, di soddisfazione ce n’è pochina in giro. E molta l’ostilità nei suoi confronti. Avere davanti un insegnante che è contento di fare il suo lavoro è per il ragazzo la possibilità di sperimentare il fatto che il desiderio può essere appagato, che non è vero che siamo condannati a una melanconia comune il cui unico rimedio è la sicurezza del possesso degli oggetti. Significa che i desideri che porta nel cuore hanno possibilità di compimento.
D’altro canto, come potrebbe accadere una reale trasmissione del sapere al di fuori di questa personale esperienza di soddisfazione del docente? Un soggetto impegnato col suo lavoro, ossia con la modalità di plasmare e informare il pezzo di realtà che si trova davanti a lui, rappresenta oggi una testimonianza preziosa ed indispensabile per chi deve iniziare a pensarsi adulto. È infatti una passione che si trasmette innanzitutto e che è in grado di veicolare i contenuti. Da lì possono prendere vita e animarsi i personaggi della storia, i teoremi geometrici, gli atomi della fisica e i costrutti sintattici.
A questo punto c’è da augurarsi che gli insegnanti soddisfatti non siano avari. Ossia che sappiano a loro volta concedere soddisfazione ai ragazzi che siedono di fronte alla cattedra, apprezzandone l’impegno e premiando i risultati, senza troppi ma e distinguo alla ricerca di una asettica quanto inesistente perfezione. Confidiamo però che accada proprio così. Perché nessuno può essere soddisfatto da solo, occorre essere almeno in due. La soddisfazione vive della reciprocità.