Di un uomo si perdono le tracce, non si sa più nulla, nemmeno è lecito dire che è morto, perché il cadavere non affiora. Scoppia il “caso”, ne parlano giornali e televisione, sollecitando chi avesse in mano un indizio a farsi avanti. E la curiosità di tanti (che non hanno in mano nessun indizio) è stimolata, fioriscono chiacchiere, chissà se è morto davvero, se si è nascosto, dove. Poi la curiosità si stanca, decade, magari è suggestionata dalle altre novità che la cronaca riversa senza risparmio; e quel caso perde smalto, esce dai radar, la stampa se ne dimentica, i programmi di prima e seconda serata cercano nuove spezie per stuzzicare la noia e rinvigorire gli ascolti. A meno che, a distanza di mesi, o di decenni, non si affacci un nuovo testimone, non riemerga un filo sepolto, e allora il meccanismo si riavvia, meglio se non c’è ancora la piena, inoppugnabile rivelazione, su elementi incerti si potranno imbastire pubblici contraddittori, o magari sproloqui tra conoscenti, fino a una nuova soglia di sazietà e dimenticanza.
Ha seguito una curva del genere la vicenda dello scienziato siciliano Ettore Majorana, il fuoriclasse dell’équipe di giovani ricercatori capitanata, a Roma, da Enrico Fermi presso il mitico Istituto di Fisica in via Panisperna. Quando Majorana, a trentuno anni, scompare, lasciando lettere ambigue a un collega e ai familiari, l’episodio intercetta per qualche tempo l’attenzione del grande pubblico. La polizia propendeva per il suicidio, senza mobilitarsi più di tanto; chiedevano ulteriori indagini i familiari, specie la madre, certa che quel figlio singolare fosse vivo. I familiari, si sa, sono ostinati, a dispetto dell’evidenza; gli altri li commiserano, anche per quella ostinazione. Così, le ricerche della polizia cessarono del tutto.
Caso definitivamente archiviato? Ma no, destinato a esser più volte riaperto da studiosi, da mitomani, da cronisti pronti a tastare il polso all’attualità. E se n’è riparlato anche di recente, sull’onda di nuove o seminuove notizie, non si sa quanto affidabili. Non si sarebbe soppresso, Ettore Majorana, gettandosi in mare, il 26 marzo 1938, dal piroscafo Palermo-Napoli, avrebbe invece cercato rifugio all’estero, in America Latina, persuaso di conquistare nella distanza una liberazione, quasi come uno dei viaggiatori di una celebre poesia di Baudelaire: «nous partons, le cerveau plein de flamme, / le cœur gros de rancune et de désirs amers». O forse (versione picaresca), avrebbe condotto un’esistenza da clochard su marciapiedi nostrani, beneficiando più o meno saltuariamente di qualche volenteroso operatore sociale, toccato dal triste spettacolo e anche interdetto per le formule di fisica teorica in bocca a quel mucchio di cenci. Chi adduce una vecchia foto; chi si fa forte di una testimonianza inedita. Quanto basta per rianimare la curiosità; e il caso è di nuovo caldo, s’intende per adesso, per qualche mese o settimana.
Il meno che si possa dire è che questa curiosità non è abbastanza curiosa: si ferma alla superficie, rifiutando di applicarsi ulteriormente, e proprio per questo è pronta alla distrazione, non appena un nuovo clamore si faccia strada. Il gusto delle sciarade non è ancora la percezione del mistero. Tentava invece il colpo di sonda Leonardo Sciascia, quando scriveva, e nel 1975 pubblicava, La scomparsa di Majorana, uno dei suoi libri più inquietanti, affacciato su un abisso interiore, su un dramma morale vertiginoso.
Sì, in un primo momento c’era stata, magari, la seduzione di un rebus; sulla scia delle ricerche di Erasmo Recami, nei primi anni Settanta già alle prese con la sconcertante vicissitudine dello scienziato scomparso. Ma Sciascia si era deciso a scrivere dopo un dibattito alla televisione svizzera, dibattito relativo non già a Majorana, bensì alla seconda guerra mondiale. Ne avevano discusso, insieme a Sciascia, Alberto Moravia ed Emilio Segrè. Ed era rimasto sereno, l’eminente fisico Segrè (a suo tempo, uno dei ragazzi di via Panisperna) alla proiezione di un filmato sull’esplosione della prima bomba atomica. Una serenità, una «coscienza tranquilla» davvero sorprendenti per Sciascia; improvvisamente memore, per contrasto, dell’oscuro tormento di Majorana, il giovane prodigioso, geniale, impareggiabile, eppure alle prese con uno spavento segreto, non dominato, non vinto, se non con quel brusco congedo. Cosa implicava la sua scelta a livello morale, sul piano delle responsabilità che l’uomo di scienza è chiamato ad assumersi, che ogni uomo, in qualche modo, deve fronteggiare, anche se risponde molte volte con la distrazione e l’omissione, la trascuratezza e l’inerzia?
Su Majorana, sulla sua rinunzia agli affetti, alle consuetudini, a una carriera sicuramente strepitosa, il libro di Sciascia ha le idee abbastanza chiare. Certo, è libro difficilmente classificabile. Un romanzo? Magari misto di storia e di invenzione? È disponibile alla critica — intendiamo dire, alla critica cordiale con lo scrittore di Racalmuto — una linea prudente: attorno a un’opera esposta, innalzare un argine protettivo, a robusta salvaguardia contro i rischi in agguato. La letteratura, si può osservare, verte non su ciò che empiricamente accade, ma su ciò che può accadere; lascia il piano della contingenza casuale per assestarsi su quello, ben più nobile, di un’incontaminata razionalità; e volentieri si congeda dal reale nella propria tensione all’ideale.
Se dunque la ricostruzione di Sciascia è opinabile, se è soggetta a smentite — nessuno può escludere che una diversa verità sullo scienziato catanese alla fine si imponga, e in maniera schiacciante — ebbene, non riesce precario il valore di un’altissima operazione letteraria, in gioco qui non è l’essere, bensì il dover essere, non l’uomo Majorana, bensì il personaggio Majorana, e il secondo è libero da obblighi verso il primo. Non è col suo alter ego biografico che bisogna paragonare un profilo del genere, semmai con i suoi effettivi sodali, insomma con i personaggi letterari, altrettanti eroi di un mondo di carta… Apologia giudiziosa, ci si sente al sicuro. Eppure, non dimentichiamolo, Sciascia si era precisamente voluto esporre. Curvo sui dati, intento a soppesare le prove documentarie, nutriva l’ambizione di far luce sull’accaduto; rischiando. Quando assicura «nulla di romanzesco», allontana una ciambella di salvataggio.
Perché, allora, coinvolgere, e in maniera esplicita, Shakespeare e Stendhal, Pirandello e Brancati, Eliot e Savinio, come questo inquirente sui generis fa a ogni passo? Senza dire dell’usufrutto di efficaci tecniche compositive, a partire dalla calibrata Ringkomposition, dalla struttura ad anello che strategicamente si apre e si chiude con l’evocazione del convento, lanciando subito un segnale che tornerà alla fine intensificato. E quegli scatti dell’immaginazione, quella «razionale certezza» paradossalmente «al di là della ragione», del suo ordinario procedere… A pensarci bene, il progetto qui non è congedare l’universo artistico, con i suoi archivi e i suoi arsenali; ma farlo convergere sulle circostanze date. La fluida costellazione dei personaggi immaginari illuminerà frammenti di biografia; gli stratagemmi della fiction saranno messi a servizio delle risultanze empiriche, a prima vista sfuggenti e ingovernabili.
È lo stesso Sciascia a tirare in ballo Mattia Pascal e, con maggior convinzione, Vitangelo Moscarda, ma proprio per capire il Majorana storico; e quando si affida alla rapidità dell’intuizione, non lo fa per sostituire al dato imperfetto un paradigma rassicurante, semmai per accelerare il discernimento di fatti e nonfatti. Romanzo e saggio si scambiano competenze, con reciproco profitto. Il dossier non è più aggrovigliato e opaco; mentre la letteratura si irrobustisce, anche se deve rinunciare alla sua purezza, alla sua non-imputabilità, e accettare che la trama abilmente ordita sia soggetta, stavolta, a verifiche. È sorprendente: una simile scommessa Sciascia ha voluto azzardarla in anni non propriamente disponibili, quando insomma si teorizzava da più parti l’intransitività assoluta dell’arte, la sua felice autonomia dall’esperienza e dalla storia.
Majorana, così vuole Sciascia, ha intuito in anticipo le conseguenze di un alacre indirizzo della scienza, di una strada imboccata fervidamente, insidiosa però nelle sue incognite. Con Bohr in Danimarca, con Fermi in Italia, con Heisenberg in Germania, la fisica incalzava sempre più da vicino l’atomo, per padroneggiarlo, manipolarlo; non diversamente avveniva oltreoceano, negli Stati Uniti in gara col vecchio continente. «La scienza è lenta», aveva constatato Rimbaud, ma Rimbaud viveva nell’Ottocento, non poteva preventivare lo sbocco di certi processi, graduali (è vero), farraginosi (sicuramente), e tuttavia ostinati. Forse inarrestabili? In un’auto-recensione pubblicata successivamente su Tuttolibri, Sciascia cita un’affermazione di Friedrich Dürrenmatt, il drammaturgo svizzero a sua volta impegnato, nei decenni del dopoguerra, a riflettere sulla scienza e le sue dinamiche: «Ciò che si è pensato una volta non può più venir revocato». Con questa battuta della sua commedia I fisici, Dürrenmatt, commenta Sciascia, «rifiuta l’utopia della responsabilità individuale, della possibilità dell’individuo di mutare o fermare qualcosa». Un fatalismo condiviso? Lo scrittore di Racalmuto sembra per un momento immedesimarsi col collega, poi passa a delimitare una posizione originale: «Questa utopia è invece alla base del mio racconto».
Le pagine della Scomparsa di Majorana contraddicono la dittatura della necessità: Ettore si è reso conto di una «cospirazione contro la vita» e abbandonando il team di Fermi, rinunciando dopo tre mesi di insegnamento alla cattedra nell’Università di Napoli, ha tradito quella cospirazione per non «tradire la vita». A costo di distruggere tutti i ponti, di far perdere le proprie tracce. È stato il più radicale; non è stato, peraltro, l’unico. Sciascia non esita a tributare un riconoscimento al fisico tedesco Werner Heisenberg (non per caso apprezzato da Majorana durante il suo soggiorno di studi a Lipsia). Se esisteva, nel Terzo Reich, uno scienziato in grado di progettare l’atomica, questi era Heisenberg; il quale però non volle avviare quel progetto e passò gli anni della guerra nella «dolorosa apprensione» che gli altri, dall’altra parte, riuscissero a realizzarlo; «non infondata apprensione, purtroppo». La Germania era sotto il tallone nazista, gli Stati Uniti godevano delle garanzie democratiche; da una parte vi erano schiavi, dall’altra liberi cittadini. Eppure, commenta Sciascia, quelli non fecero la bomba, questi la consegnarono ai politici e ai militari. «Si comportarono liberamente, cioè da uomini liberi, gli scienziati che per condizioni oggettive non lo erano; e si comportarono da schiavi, e furono schiavi, coloro che invece godevano di una oggettiva condizione di libertà».
Auspicabile, certo, una cornice istituzionale rispettosa della dignità umana, dei diritti della persona; fermamente auspicabile, e anzi da rivendicare e da difendere. Ma non è, di per sé, un quadro di istituzioni, non è un insieme di procedure riconosciute e formalizzate la garanzia rispetto al potere: l’aggressività del potere trova la sua pietra d’inciampo nell’io, in un io che ha preso coscienza di se stesso, e avverte pressione e ricatto dove gli altri non scorgono che normalità, e rifiuta la connivenza a cui tutti o quasi tranquillamente si sottomettono. Fra parentesi: la letteratura ha ruolo e presa anche perché estremamente sensibile, per sua indole, all’io, di cui sa tallonare lo smarrimento e lo scatto.
L’ultimo capitolo della Scomparsa di Majorana, con la visita dell’autore all’antico convento dove Ettore, «forse», si era rifugiato, ha un taglio allusivo, che suggerisce e insinua col minimo. Non è solo l’interrogativo sull’ultimo asilo di un cor inquietum a serpeggiare tra le righe. Ciò che si è pensato una volta può esser magari revocato. E ciò che è stato fatto? Ciò che altri si accaniscono ancora a fare? Majorana si è tirato fuori dalla cospirazione contro la vita, «ma la cospirazione non si è spenta per quella defezione, il dissolvimento continua, l’uomo sempre più si disgrega e svanisce in quella stessa sostanza di cui sono fatti i sogni». C’è Shakespeare in queste parole, c’è la saggezza triste della sua penultima opera, La tempesta, dove Prospero, il re in esilio su un’isola decentrata, ignota a tutte le rotte, recita il suo vanitas vanitatum: «Noi siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, circondata dal sonno è la nostra breve vita».
Ancora una volta, il rinvio ce lo indica Sciascia. Ma anche altro, ci indica, quando descrive il cimitero del convento, terra rossastra, tumuli come coperchi di sarcofagi, «una croce di legno nero su ogni tumulo», naturalmente senza indicazione alcuna di nomi. «Una inviolabile pace è tra quelle croci nere. Ci sentiamo in pace anche noi». La contraddizione (la cospirazione) non si può estirpare dalla storia, ma nemmeno si può estirpare la croce, che non elimina il dissesto, anzi è impensabile senza il dissesto, la catastrofe, la morte, la dissoluzione, eppure apre da lì una prospettiva ulteriore. Non per caso, al cospetto delle croci, del loro nero, si stabilisce una pace che nessuna bruttura della storia, nessuna sua atroce possibilità è in grado di sconvolgere. La religio di Sciascia tocca qui un esito impressionante. Senza smarrire, nemmeno per un momento, un tenace pudore; riservata e schiva, come la parola del padre certosino che accompagna la visita al convento, ora rispondendo ai quesiti, ora apparentemente eludendoli: «Allarga le braccia, leggermente sorride».