Se un navigatore appassionato di web 2.0 avesse passato i giorni scorsi a curiosare tra blog e social network, si sarebbe imbattuto in due filoni di discussione animata tra i frequentatori della Rete. Uno dei due si riferiva alla recente puntata di Report dedicata a Facebook, Google, Twitter e all’uso che simili siti (e le società che stanno loro dietro) fanno dei dati personali che gli utenti loro affidano. L’altro prendeva le mosse dalla giornata di mobilitazione per la scuola, la “Notte bianca della scuola” organizzata dal Partito Democratico per lo scorso 8 aprile, al quale un nutrito gruppo di blogger ha proposto di far seguire un’analoga giornata di mobilitazione sul Web, per dire la propria sulla scuola italiana e sulle sue prospettive.
Due argomenti solo apparentemente irrelati, che difatti in pochi hanno esplicitamente messo in rapporto. Eppure, parlare di istruzione, di educazione, di formazione, attraverso Internet e gli strumenti di condivisione non può non richiamare a una riflessione sul canale che si sta utilizzando, e che gli stessi partecipanti alla discussione hanno dovuto imparare a maneggiare. Anzitutto, facendo i conti con il suo potere di diffusione.
“Il web 2.0 è un formidabile moltiplicatore, tanto nel bene quanto nel male” afferma Monica Gobbato, avvocato, esperta di privacy e attenta osservatrice delle nuove tecnologie. “Dei centinaia e centinaia di contenuti diffusi ogni giorno su Internet dagli utenti, pochi sono le informazioni, i commenti o i post sensati o interessanti; ma tutti vengono diffusi allo stesso modo, spesso oltre la stessa consapevolezza di chi li ha immessi in Rete”. Tra questi rientrano i dati e le informazioni personali: non solo quelle degli autori stessi dei contenuti, ma anche di terzi, magari citati a loro insaputa, magari non sempre in maniera lusinghiera.
Per carità, niente di più che comuni confidenze da bar: solo che invece che scorrere via, come accadrebbe se fossero nate davanti a un caffè, in Rete restano lì a duratura testimonianza.
“Da tempo parliamo di diritto all’oblio”, afferma ancora Gobbato, “vale a dire del diritto di ogni persona a non essere giudicato per errori compiuti molto tempo prima”: errori che in Rete diventano storia, e faticano ad essere cancellati e quindi perdonati – una lezione importante per chi ha la vita davanti. Oltre alla diffusione, il Web è caratterizzato dalla permanenza: tutto quello che viene scritto o immagazzinato – opinioni, immagini scherzose e/o compromettenti, dati sensibili – resta impresso nella memoria collettiva della Rete, pronto a restituire l’immagine di chi l’ha originato a chiunque si metta sulle sue tracce. E più frequenti e più corposi sono i contributi – come quelli quotidianamente assicurati dalla componente più giovane dei frequentatori di social network -, più l’immagine sarà completa, e indelebile.
Il rischio ultimo è quello di esporre pubblicamente, e prolungatamente, il bene più prezioso che possediamo: la nostra stessa identità. Chi sostiene la necessità della scuola italiana di mettersi al passo con i tempi, auspicando un maggiore coinvolgimento delle nuove tecnologie già frequentate dai ragazzi, non può esimersi dal confronto con questo problema, e con la necessità di educare gli allievi ad affrontarlo a loro volta.
Non perché siano tecnologicamente poco edotti, al contrario: ma proprio questa familiarità “nativa” con la Rete, sostiene Gobbato, potrebbe ostacolare un approccio più mediato e riflesso con il mezzo. Compito degli educatori, a partire dalla famiglia, è quello di smascherare la leggerezza solo apparente dell’immaterialità digitale, che cela l’insostenibile pesantezza della parola. Ma per insegnare a sostenerla, non servono nuove né vecchie tecnologie: serve etica, esempio, rispetto, in una parola responsabilità.