Si possono numerare le stelle del cielo? La domanda fa subito pensare a una lunga e paziente opera di conteggio aritmetico, già intrapresa chissà quante volte nell’antichità; o alle luci intermittenti dei mega computer di un grande centro di calcolo. Ma ci ha pensato proprio un matematico come Wendelin Werner a riportare la questione al suo livello più interessante: «La domanda è sul cielo ma in realtà è su di noi, sulla nostra incapacità di concettualizzare ciò che siamo, sul funzionamento del nostro cervello, sulla nostra ricerca di Dio».
È stato questo l’epilogo di una due giorni dedicata alla scienza all’interno della Milanesiana, l’iniziativa sorta da un progetto di Elisabetta Sgarbi per dare voce ai protagonisti delle diverse discipline artistiche e della cultura mondiale e giunta quest’anno all’undicesima edizione. E il matematico che ha reagito così alla provocazione del titolo della tavola rotonda non è uno qualunque. Nato nel 1968 in Germania, ma formatosi nell’area parigina, Werner nel 1979 è diventato un cittadino francese e dal 2005 insegna all’Ecole Normale Supérieure a Parigi.
Il suo aspetto modesto e semplice nasconde il fatto che nell’arco di una decina d’anni ha infilato una serie di riconoscimenti internazionali corrispondenti a un grande slam della matematica: ha ricevuto il premio dalla French Academy of Sciences e dall’European Mathematical Society, il Fermat Prize, il Loève Prize, il Polya Prize e, nel 2006, la celebre Fields Medal della International Mathematical Union (è la prima volta per un matematico che si occupa, come lui, di probabilità).
La sua modestia risalta ancor più al confronto dei suoi interlocutori, invitati al Museo della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci per rispondere alla domanda iniziale: dallo snobismo iconoclasta di Shalom Auslander, che vorrebbe mandare al diavolo il Padreterno ma, in quanto ateo, non può farlo; all’eccentricità di Lawrence Osborne, che si accoda con qualche distinguo alla furia anti religiosa del collega e suggerisce al pubblico un viaggio in Papua Nuova Guinea per dirimere la questione; all’esuberanza di Piergiorgio Odifreddi, subito pronto ad accorrere in soccorso dei vincitori.
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Quanto a Werner, si capisce come sia stato da tempo in compagnia della domanda circa la numerosità delle stelle. Da ragazzo, confessa, voleva fare l’astronomo poi ha scelto la matematica perché desiderava prendere di petto il tema dell’infinito e aveva capito che «ciò che affascina nelle stelle è che danno a chiunque un immediato contatto con l’infinito». Con l’infinito arriviamo alle radici della matematica, che si occupa di strutture del genere del cielo stellato, sia che le affronti dal punto di vista del “continuo” sia da quello del “discreto”. Molto di quello che hanno fatto i matematici, osserva Werner, è stato ispirato da aspetti della fisica, per la quale la natura sembra continua anche se formata da tanti elementi individuali.
Il continuo è il contesto più corretto per capire il mondo; è nelle strutture continue che sono inserite le simmetrie, le armonie e bellezza. Invece con il discreto è tutto più difficile, il calcolo discreto è complicato: «nella mia ricerca, per studiare il discreto devo andare a prendere in prestito elementi continui per poi tornare ai discreti a contare i discreti». Insomma, gli esseri umani aspirano al continuo ma poi sono costretti a fare i conti col discreto e per questo devono tornare al continuo.
È uno dei tanti paradossi, come quelli sui quali si era basata la serata precedente, con una performance multidisciplinare al Teatro Dal Verme introdotta dal direttore del Museo della Scienza Fiorenzo Galli.
La vita è un paradosso continuo, ha osservato Galli. Sia che per παρα-δόξα si intenda un “oltre l’opinione corrente” sia un “al di là del senso comune, della verità”. Il paradosso è «parte integrante dell’infinito irrisolto del pensiero umano, che ad esso ricorre sovente per evidenziare il proprio arrendersi al non conosciuto-conoscibile: quasi come un gioco dialettico – a volte drammatico altre scherzoso – in grado di mascherare (o smascherare?) il dubbio, il mistero, l’incomunicabilità».
Il paradosso è anche il “sale” della vita, quell’elemento che dà stimolo, curiosità, induce alla ricerca, alla sperimentazione, apre interrogativi continui. E non è così paradossale che un evento iniziato con l’elogio del paradosso si concluda scivolando dall’alta matematica alla religione, vista da Auslander come un fattore limitante della conoscenza umana e da Osborne come l’esito di una ubriacatura.
Trainato da un’osservazione dello stesso Odifreddi – che fa notare la singolarità delle coincidenze che vedono lo stesso numero, 100 miliardi, valere per contare le stelle, le galassie, i nostri neuroni e gli uomini vissuti sulla Terra finora – Werner ha concluso ricordando che tutti abbiamo la stessa attitudine verso l’infinito, e tutti abbiamo lo stesso problema di affrontare la vita è le sue asperità: «Per affrontarla bisogna partire dalla condivisione, dal riconoscimento di questo destino comune; e forse il modo migliore è l’ironia, l’arguzia, l’umorismo che sa andare oltre le ideologie».