“In conclusione mi sembra che nulla può essere più utile ad un giovane naturalista di un viaggio in paesi lontani. Esso rende più acuto e mitiga in parte quel bisogno e quel desiderio, che […] sente un uomo, quantunque ogni bisogno del suo corpo sia pienamente soddisfatto” (C. Darwin, Viaggio di un naturalista giramondo)
Il volto “umanista” dei naturalisti dell’Ottocento, cioè di una scienza continuamente immersa nelle dimensioni filosofiche, artistiche, estetiche, letterarie, politiche, sociali, morali, religiose, come fu eminentemente quella di Darwin, lo si può riconoscere meglio se lo si comincia ad osservare da particolari angolature. Ad esempio, passeggiando in una piccola isola nel cuore di Milano, dove si trovano un archivio, una biblioteca ed un intero museo, compreso il parco che li ospita.
Qualche passo più in là, superati i bastioni di Porta Venezia, si può addirittura esplorare quel mondo a cielo aperto, passeggiando tra le vie dai nomi poco usati: Omboni, Jan, De Filippi, Stoppani. Si potrà scoprire una storia che non racconta, come in un romanzo d’appendice, solo le vicende dei buoni contro i cattivi; o degli eroi bianchi contro quelli neri: che non racconta cioè solo della diffusione delle teorie di Darwin contro i suoi oppositori, degli innovatori contro i conservatori, dei progressisti contro i reazionari, dei vittoriosi Darwin di ogni tempo contro gli eterni sconfitti capitani Fitz-Roy, dei Moderni contro gli Antichi.
Al quarto piano dell’imponente edificio neogotico, dai bellissimi fregi in terracotta, si possono infatti ancora leggere le lettere che uno dei più noti naturalisti italiani del secondo Ottocento, Filippo De Filippi, aveva spedito all’amico e direttore del Museo, Emilio Cornalia. De Filippi, nel 1865, era salpato in missione esplorativa intorno al globo: l’occasione di una vita, per un naturalista. Mentre solcava il mare, scriveva raggiante di entusiasmo a bordo della pirofregata Regina che il suo “viaggio” era stato “felicissimo”; che avevano “avuto un po’ di cattivo tempo nel Mediterraneo, ma una volta entrati nell’Oceano, tutto [era andato] a gonfie vele“. Partito da Napoli per una missione diplomatica, commerciale e scientifica alla volta di Cina e Giappone, il 23 dicembre 1865, “dal pieno oceano, a 2* 25′ lat. sud, 30 circa long. ovest“, egli scriveva dunque all’amico che “materia di lavoro per noi naturalisti ce n'[era] a bizzeffe“: anzi, che “la rada di Gibilterra è un eldorado per noi naturalisti“. Nessuno meglio di lui, probabilmente, avrebbe potuto scrivere quelle parole destinate ad assumere uno straordinario significato simbolico, teso fra l’antico limite valicato dall’Ulisse dantesco, e la misura del desiderio di conoscenza dei naturalisti viaggiatori e scrittori dell’Ottocento. Come l’eroe della Commedia, egli non fece più ritorno in patria, e morì in quella medesima circumnavigazione del globo, nel 1867, ad Hong Kong, a soli 53 anni, nel bel mezzo del suo più luminoso sogno di esploratore del mondo.
De Filippi aveva però già valicato, l’anno precedente, uno stretto di Gibilterra ancora più significativo, che avrebbe fatto di lui, evoluzionista cattolico, appassionato lettore di Dante e Manzoni, il simbolo stesso dell’ingresso della cultura italiana nella modernità post-darwiniana. L’anno prima di imbarcarsi era divenuto infatti anche il più discusso naturalista del panorama culturale italiano, per aver pronunciato la famosa lezione dell’11 gennaio 1864 su L’uomo e le scimie. Con essa si era inaugurato il dibattito sul darwinismo e sull’origine dell’uomo, in un contesto multiforme, nel quale sarebbero entrati materialisti, spiritualisti, rosminiani, gesuiti, neotomisti, modernisti, metafisici, metapsichici, positivisti, monisti, liberi pensatori, sacerdoti, vescovi, letterati, artisti, statisti, economisti, liberali e socialisti, conservatori e progressisti.
La “conversazione scientifica” di De Filippi, che tanta costernazione aveva suscitato nel pubblico, era però ispirata manzonianamente ad una recisa distinzione di ambiti, che solo così egli riteneva si potevano reciprocamente illuminare. Nella Appendice alla conferenza torinese, mentre difendeva la verità scientifica offerta da Darwin, allo stesso modo metteva in guardia dall’uso metodologicamente improprio dei due diversi linguaggi, scientifico e religioso, una volta che venissero impiegati per confutare o sostenere fatti di ordine diverso da quelli di reciproca pertinenza. “La filosofia naturale non ha nulla a che fare colla rivelazione, non può adoperarsi né a favore né contro di essa. I razionalisti fanno cattivo uso della ragione, quando studiano l’opposizione de’ risultai scientifici alle credenze od ai sentimenti religiosi, come questa opposizione fosse per sé un criterio probativo di verità fisiche; ed i teologi fanno male alla religione quando vogliono darle sostegni che essa non chiede, dei quali non abbisogna, e che, essendo concessi assolutamente alla libera discussione, possono essere rovesciati“.
Mentre l’ecclesiastico Darwin aveva dialogato da naturalista con la teologia naturale di Paley, lo scienziato cattolico De Filippi aveva avuto come riferimento soprattutto l’umanesimo del Manzoni, che allora era scrittore di fama internazionale anche presso i più noti scienziati-letterati, come Goethe, che traduceva le sue poesie, o Alexander von Humboldt, l’idolo di Darwin, che gli aveva offerto nel 1844 l’onorificenza dell’Ordine al Merito da poco istituita in Germania.
De Filippi aveva scelto di rendere esplicito il suo debito letterario già nel 1855, citando una delle opere teoricamente più mature di Manzoni, e debitrice proprio del Rosmini, il Dialogo dell’Invenzione. Quel particolare dialogo veniva posto ad epigrafe di uno scritto che già trattava dell’evoluzione, inserita però nel contesto della teoria di Cuvier, che spiegava i mutamenti naturali con catastrofi e diluvi, in diretto riferimento al diluvio di Noè narrato nella Bibbia. Darwin, come è noto, nutriva una particolare avversione per diluvi e catastrofi di ogni tipo, perché inficiavano la sua visione lenta e gradualista dei fenomeni, e che egli interpretava alla stregua di inopportune intromissioni di linguaggi non scientifici in un ambito riservato alla verifica delle sole cause naturali.
De Filippi, che pure cercava prove altrettanto “positive”, preferiva invece seguire l’avviso del Manzoni: “Come gli errori scientifici possono, nella mente dell’uomo, essere ostacoli alla fede; così le verità rivelate possono essere aiuti per la scienza; poiché facendo conoscere le cose nelle loro relazioni con l’ordine soprannaturale, le fanno necessariamente conoscere di più: e quindi la scienza può procedere da un noto più vasto alle ricerche e alle scoperte sue proprie“.
Così recitava l’epigrafe manzoniana in testa al saggio intitolato al Diluvio noetico. E oggi sappiamo che le ipotesi catastrofiste di Cuvier erano assai più vicine alla verità dei fenomeni di quanto per più di un secolo non si sia creduto.
La fede, per uomini legati a questa cultura, restava un’esperienza che non aveva bisogno, per essere creduta e vissuta, di “sostegni che essa non richiede“. Così come non avrà bisogno di consolazioni progressiste e incanti letterarii per riconoscere la realtà della falcidia della selezione naturale, o quella di “sorella morte“, o dello “sterminator Vesevo” del Leopardi. La storia naturale del De Filippi era in tal senso vaccinata contro i “disegni intelligenti” di ogni tipo − scientifico, umanistico, religioso – che imponevano sempre i loro fiabeschi e ambigui lieto-fine, tanto quanto il Manzoni aveva tenuto assai distante l’idillio illuminista e l’happy-end romantico delle storie romanzate dalla storia drammatica del suo romanzo. Quelle stesse storie romanzate che invece tanto piacevano all’anziano Darwin, il quale, mentre considerava “insopportabilmente pesante” Shakespeare, nello stesso tempo apprezzava con gratitudine, per la loro funzione terapeutica, anche i romanzi mediocri, purché avessero sempre il lieto fine: “mi piacciono tutti, purché siano appena passabili, e non finiscano tragicamente: cosa contro la quale si dovrebbe proporre una legge“, scriveva nell’Autobiografia.
Anche se, bisogna pur dire, che la consapevolezza così chiara di un rapporto fecondo tra scienza e fede, che avesse come indispensabile premessa la distinzione degli ambiti, non era consapevolezza diffusa né presso i sostenitori dello scientismo positivista, né fra i sostenitori dell’apologetica cristiana europei. “Il mondo non è Dio“, scriveva Hans Urs von Balthasar, “è quanto oggi è chiaro a teisti e atei. E il mondo non è neppure aperto a Dio, nel senso che Dio intervenga in ogni istante su di esso per mantenerlo in movimento; non si accresce la stima del Creatore chiamando in causa il Primo Motore ogni volta che si riscontra una lacuna nelle cause seconde. L’apologetica cristiana dovrebbe essere diventata qui più accorta dopo aver fatto molti danni; la sua storia, soprattutto alla fine dell’Ottocento, assomiglia a una catena di equivoci ben intenzionati, con la conseguenza di ritirate forzate. Oggi siamo chiaramente consapevoli di non poterci servire della Bibbia contro le scienze naturali, perché il fine che Dio ha perseguito con la rivelazione biblica non è quello di dare agli uomini un insegnamento di scienza naturale. Ma con quanta fatica ha dovuto essere conquistata questa prospettiva!“.
Per incontrare davvero quel mondo culturale, apparentemente così lontano, forse potrebbe essere allora propedeutica la passeggiata nel parco immerso nella storia del nostro Risorgimento, dove si trova appunto il museo, fra le statue dei generali garibaldini, che non trionfano, ma si dolgono per le stragi della guerra; e le statue di Stoppani, ad un ingresso, e di Rosmini a quello opposto rivolto ad ovest, che indicano i confini della dimensione metafisica a quel cuore scientifico pulsante di un’unica, tanto varia quanto dialogante, cultura.