La notizia è rimbalzata qua e là nelle ultime settimane: il ddl C. 953 (meglio noto come disegno di legge Aprea) “non s’ha da fare”. E non sono alcuni notisti maliziosi, in veste di bravi di manzoniana memoria, a volerlo imporre; né sono i molti e battaglieri studenti di questi tempi ad averlo concretamente sancito per mezzo delle loro diffuse e vivaci proteste. Questa volta l’annuncio è venuto direttamente dal Partito democratico, in particolare da Mariangela Bastico, già sottosegretario del dicastero Fioroni. In un comunicato ad hoc, infatti, la senatrice ha spiegato che il clima caldo della piazza e l’incombente campagna elettorale hanno cambiato ogni praticabile scenario. Quindi, la tanto discussa riforma dell’autonomia scolastica – ora auspicata, ora paventata – smetterà, almeno per ora, di agitare le riflessioni di esperti ed operatori.
Un bilancio, tuttavia, è quanto mai opportuno, per lo meno con riguardo ai motivi che hanno animato l’acceso dibattito e che ne hanno, anzi, polarizzato i toni in modo forse non del tutto equilibrato. Diciamo subito, però, che il naufragio dell’intervento legislativo non rappresenta certo una disgrazia irrimediabile e che, forse, a ben vedere, dovremmo essere grati alla sorte.
In primo luogo, infatti, si deve precisare un dato difficilmente contestabile: il risultato ultimo dei lavori parlamentari non prometteva di consegnare alla comunità scolastica uno strumento del tutto coerente ed efficiente.
I tanti (e grandi) difetti della versione più recente del ddl Aprea sono già stati illustrati puntualmente anche dagli studiosi più sensibili (vedi, in questa stessa testata, l’articolo di Annamaria Poggi), ed anche se non è mancato chi ha cercato di “salvare il salvabile”, si può ribadire l’avviso a suo tempo già manifestato: un’operazione “a cuore aperto” su di un paziente già debilitato non può avere esiti positivi soltanto perché mossa da propositi astrattamente condivisibili.
In secondo luogo, è opportuno rammentare che neppure l’originario articolato poteva dirsi convincente. Ciò per un elemento strutturale e pregiudiziale, valido per qualsiasi iniziativa normativa che intenda rivedere l’assetto organizzativo e gli strumenti delle istituzioni scolastiche: si dovrebbero affrontare, piuttosto, gli snodi fondamentali della disciplina degli organi collegiali, della figura del dirigente scolastico e della funzione docente. E niente di tutto questo contiene il ddl Aprea. In poche parole – volenti o nolenti – si deve pensare di “fare i conti” con il Testo unico del 1994.
È vero che le assemblee legislative e gli esecutivi dimostrano, non solo nelle contingenze di questa crisi, di non poter avviare alcun processo di cambiamento realisticamente credibile ed efficace. È altrettanto vero, però, che la scuola e l’istruzione in genere non hanno più bisogno di leggi-manifesto o di “ritocchi” asseritamente accorti e capaci di smontarne i principali difetti. Scuola e istruzione sono materie che hanno la sensibilità e l’articolazione di un complesso orologio, i cui ingranaggi non si possono sostituire a piacimento.
Se il legislatore deve “metterci le mani”, lo deve fare con l’ottica di chi intenda lavorare per un praticabile futuro e di chi, a questo fine, riesca finalmente a valorizzare, oltre al consueto florilegio di statistiche internazionali, il grande incubatore di esperienze e di suggerimenti che solo dalla stessa scuola e dalla stessa istruzione possono sorgere. Al di là, dunque, di uno scontato e “stanco” riaffacciarsi del dilemma – ancora una volta, tutto italico – della dicotomia pubblico-privato.
In terzo luogo, ci si auspica che il delicatissimo organismo scolastico non sia – come è, invece, accaduto anche in quest’ultima occasione – ciclicamente esposto, in modo ogni volta fatale, alla retorica che lo vuole sospeso tra il rischio di sotterranee privatizzazioni ed il pericolo di immobilismi corporativi. Del resto, se il ddl Aprea aveva un demerito, questo non poteva essere il temuto effetto di privatizzare la scuola, obiettivo che non si poteva leggere nemmeno a voler spingere all’ennesima potenza le tecniche, care ai giuristi, del “combinato disposto” o dell’interpretazione sistematica. Dall’altro lato, poi, alle rimostranze di studenti e docenti non si poteva neppure rimproverare la volontà di mantenere fermo uno status quo che, all’opposto, costituisce e ha sempre costituito la pietra dello scandalo di tutte le rivendicazioni generazionali e di tutta l’insoddisfazione del corpo vivo degli insegnanti.
Il fatto è che alunni e docenti sono penalizzati da tempo, e fin troppo, dalle pasticciate indecisioni e dagli slogan più o meno innovativi o rassicuranti di chi si trova, da diversi decenni, a governare pro tempore la scuola italiana. Si meritano ben altro e, soprattutto, non sopportano più di essere banalmente strumentalizzati.