Bene ha fatto ilsussidiario.net a coltivare un ampio dibattito tra insegnanti, appassionati, divulgatori e storici sulla questione dell’insegnamento della storia a partire dal problema dell’insegnamento del Novecento.
Mi pare infatti che Gianni Mereghetti abbia posto con forza esistenziale e sofferta passione intellettuale (come mostrano i suoi commenti ai diversi interventi che si sono succeduti) un problema decisivo per tutti gli insegnanti, in particolare per un insegnante di storia: come posso introdurre alla comprensione del presente i miei studenti?
In questo senso desidero offrire in questa sede un contributo che vada al di là dei problemi da cui è scaturita la sua “confessione”, e che riguardavano l’ambito della programmazione scolastica, con tutti i suoi vincoli anche se oggi, come è stato giustamente notato, l’autonomia offre nuove possibilità per operare scelte contenutistiche, metodologiche e di uso del manuale coraggiose.
A me pare che il problema decisivo sia riconducibile però al “disagio” sentito da ogni autentico insegnante di storia di fronte all’appiattimento del rapporto passato-presente dei nostri ragazzi.
Certamente viviamo in una società condizionata dal nichilismo postmoderno, ovvero dalla teorizzazione della inutilità della ricerca di qualsiasi orizzonte totalizzante, perché ogni forma di risposta porterebbe ad accentuare la conflittualità tra gli uomini e a limitare la vitalità espressiva dei singoli nel godimento del reale.
Più che dall’ignoranza storica dei ragazzi (le informazioni a domande specifiche su fatti e personaggi si possono infatti trovare o recuperare in tanti modi) ciò che preoccupa è che non siano consapevoli che la storia è innanzitutto la dimensione caratteristica di ogni uomo in azione, cioè anche di loro stessi; che la storia è l’esito delle azioni degli uomini, sono i fatti e gli eventi che l’uomo mette in atto per realizzare i propri obiettivi ideali, sociali e politici, mentre è la storia come storiografia che è frutto della ricerca degli storici, della loro interpretazione delle fonti, delle loro congetture, delle loro ipotesi di spiegazione.
Insegnare la storia quindi non è solo comunicare quanto la ricerca storica ha saputo ricostruire di un periodo, di un popolo, di un’epoca, ma anche lo “spessore” umano che sottostà alla complessità di un’epoca, perché gli uomini in azione sono perennemente alla ricerca del significato della vita ed insieme impegnati ad organizzare rapporti sociali e strutture istituzionali funzionali allo stabilirsi di rapporti umani sempre più positivi e capaci di governare ed utilizzare al meglio la realtà naturale.
Insegnare storia è quindi fondamentalmente introdurre alla pienezza della dimensione memoriale umana.
Invece oggi il “presentismo” insito nella forma mentis dei nostri studenti rende molto difficile, anche per coloro che sono affamati di verità, vivere un orizzonte totalizzante nella ricerca del senso della vita nel presente. Perché cercare il senso della vita nel presente non è semplicemente riappropriarsi degli elementi ritenuti più veri nell’ambito della tradizione culturale, letteraria, religiosa eccetera, in funzione della ricerca della propria identità.
Noi infatti cogliamo sempre il presente all’interno di un orizzonte temporale sintetico. L’orizzonte che ci permette di parlare del presente trascende sempre l’immediatezza e si chiama memoria, e la memoria (come ci ricordano tutti i filosofi della temporalità da Agostino in poi) è la custode non solo dei ricordi del nostro io, ma anche della nostra strutturale apertura agli altri e all’infinito.
La conoscenza storica si riferisce quindi al passato in modo particolare, in quanto l’oggetto della storia non è il passato in quanto tale, ma la realtà del passato in quanto vissuta, risignificata e organizzata dagli uomini. In questo senso la storia non coincide mai con la dimensione memoriale dell’antropologia, perché suo oggetto non è tanto ciò che una realtà ha significato per la crescita dell’identità personale del singolo studente, quanto la realtà del passato con tutta la gamma delle possibilità di risignificazione della esperienza di un gruppo, di un popolo, di una nazione, di un’identità collettiva nel tempo. Sinteticamente, si può definire la conoscenza storica come la «conoscenza del passato umano in quanto umano» (Henri-Irénée Marrou).
La conseguenza sul piano educativo è che l’introduzione alla memoria storica deve mirare ad inserire la maturazione della consapevolezza della propria identità nella rete delle possibilità e caratteristiche specifiche della propria “famiglia umana di origine”.
Questo implica l’esigenza di inserire la propria storia contestualizzandola in una realtà più ampia e significativa dal punto di vista delle svolte esistenziali, secondo una modalità “inclusiva” e non semplicemente “estensiva” della propria ricerca identitaria.
Illustra bene il senso di questa specificità della memoria storica quanto mi raccontava recentemente una maestra, che, per introdurre i bambini alla dimensione storica, non si è limitata a far loro ricostruire la linea del tempo a partire da volti e date connesse alla storia della propria famiglia, ma li ha aiutati a comprendere che tanti avvenimenti familiari andavano collegati ad una svolta connessa alla realtà “comunitaria” vissuta dai nonni, che aveva finito per condizionare la linearità cronologica dei dati raccolti dividendo o aggregando in modo nuovo le storie individuali (nel suo caso l’immigrazione nel milanese degli anni 50-60 costituiva la facile esemplificazione di un grande punto di svolta).
Il senso della dimensione storica rimanda quindi sempre all’intreccio tra il nostro io che cerca di rispondere al suo bisogno di verità e felicità e il contesto umano in cui siamo inseriti, e questo intreccio avviene sempre e comunque nella forma della socialità; avviene sempre all’interno di una realtà “comunitaria”, sociale, di popolo.
Dire che la storia ha strutturalmente a che fare con la prassi umana, non significa però ridurre la dimensione storica ad un sapere immanentisticamente o materialisticamente determinato, perché la prassi va considerata come la dinamica con cui gli uomini cercano di vivere e costruire il loro rapporto tra loro e con la realtà secondo tutti i fattori, ideali, sociali e materiali.
Da questo punto di vista la storia è il tipico sapere umanistico, perché mostra in ogni periodo che l’uomo non si può ridurre solo ai suoi fattori materiali, economici e sociali, ma che l’urgenza d’infinito e la sua libertà possono scatenare svolte che rendono impossibile determinare leggi “oggettive” dello svolgimento della dinamica storica: “L’essenza dell’atteggiamento umanistico può essere definita come un interesse, colmo di rispetto e di simpatia, per la diversità: per gli altri uomini, per altre idee, per altri ambienti e per altre culture. […] Se accettiamo questa definizione dell’atteggiamento umanistico […] allora dobbiamo ricordare che il custode della diversità umana è la storia” (Witold Kula).
Ecco perché il tentativo di evidenziare il valore “pragmatico” della memoria storica, che accompagna molti sostenitori della necessità di uno studio della storia contemporanea che arrivi fino “all’ultimo miglio”, è fondamentalmente velleitario; conoscere la storia ci aiuta a situare meglio quali sono i problemi dell’oggi, ma non ci fornisce certo un principio euristico per risolverli: “la storia non serve a sapere dove si va (se qualcuno ti dice di saperlo, è un bugiardo e un mascalzone), ma da dove vieni” (Umberto Eco).
La concezione pragmatistica dell’uomo, in cui il sapere è finalizzato all’azione, alla risoluzione pratica della problematica del presente, non appare quindi in grado di fondare il gusto profondamente umano della ricerca e della conoscenza storica.
Si comprende di conseguenza come il problema della “contemporaneità” vada posto in altri termini. Lo ha detto bene Giorgio Rumi: “la contemporaneità della storia non sta nell’estrinseca vicinanza cronologica al fruitore, quanto nella capacità dello storico di comunicare l’esperienza dei nostri predecessori, essenziale nella comprensione di come e di chi siamo. Identità e appartenenza, luoghi e nazioni si spiegano e danno conto di sé nella misura in cui lo storico riporta a noi quelle realtà, altrimenti sigillate nel buio del tempo”.
Allora non è necessario porsi il problema dell’insegnamento del Novecento, in particolare degli ultimi 50 anni? Nient’affatto. Proprio perché può introdurre alla contemporaneità dell’avventura umana nel tempo sia chi insegna storia romana o medievale come chi insegna il periodo della guerra fredda, il problema diviene in primo luogo 1. quello della “analogia” nella modalità di insegnamento, perché i ragazzi possano cogliere lo “spessore umano” che sta dietro le differenti categorie mentali, realtà istituzionali e sistemi economici dei vari periodi storici, e poi 2. quello della “proporzione” della programmazione, perché sarebbe contraddittorio con l’educazione al senso della durata e della complessità della storia non trovare il modo di individuare percorsi (non è necessario conoscere tutto di un periodo per capirne le coordinate) che permettano ai giovani di comprendere in modo non ideologico almeno i grandi nodi del nostro passato prossimo.
Certo il “disagio” di fronte al timore di non aver aiutato i nostri studenti ad aprirsi adeguatamente al presente non sparirà, ma, convinti che in ogni caso l’esito dell’azione educativa non è in mano nostra, se riscopriamo l’impianto antropologico della dimensione storica e proviamo ad operare didatticamente di conseguenza (tra gli insegnanti, posso testimoniarlo personalmente, ci sono varie forme di libera aggregazione civile volte a sostenere questa prospettiva) saremo più consapevoli della grandezza del nostro compito ed insieme della necessità di rinnovare continuamente la nostra didattica, perché come dice papa Francesco: “Gli insegnanti sono i primi che devono rimanere aperti alla realtà. (…) se un insegnante non è aperto a imparare, non è un buon insegnante, e non è nemmeno interessante; i ragazzi capiscono, hanno ‘fiuto’, e sono attratti dai professori che hanno un pensiero aperto, ‘incompiuto’, che cercano un ‘di più’, e così contagiano questo atteggiamento agli studenti”.