Tempo di bilanci per la scuola. Dopo un lungo anno, per alcuni lunghissimo, la scuola dovrà sancire con il giudizio finale il successo o l’insuccesso degli alunni.
Se per i docenti gli “scrutini” sono un’estenuante maratona in cui si decreta la qualità “scolastica” degli alunni, per questi ultimi rappresentano una sorta di processo in cui a loro è negata l’arringa finale. Io speriamo che me la cavo, anche se so che non ho dato il meglio di me, ma beccarsi un recupero o, peggio, una bocciatura, significherebbe rovinare la felice e spensierata stagione delle vacanze, e altro ancora.
Ogni studente sa bene quanto impegno ha profuso nel cammino scolastico: qualcuno è stato messo sull’avviso dal professore che già dopo il primo quadrimestre aveva sentenziato che no, quest’anno proprio non ce l’avrebbe fatta e sarebbero fioccati uno o più recuperi. Gli studenti si rappresentano la scuola come una corte d’appello in cui in sorte ti può capitare il giudice indulgente o quello duro, incattivito, che parte dal presupposto che “dura lex, sed lex”. Ma perché questo immaginario nella mente dei ragazzi?
Forse perché la frequenza alla scuola è in qualche modo disegnata da scuola e famiglia come una forca caudina tra cui passare per diventare grandi ed avere successo nella vita. Non come un’esperienza che fa crescere la persona anche attraverso una valutazione che permette a ciascuno di conoscere i propri punti di forza e i propri punti deboli. Il discorso sarebbe troppo lungo e lo lascio ad altra occasione.
Mi preme qui evidenziare alcuni punti da cui la scuola dovrebbe partire nella sua funzione valutativa, perché quest’ultima assuma il carattere di aiuto e conferma per i ragazzi che hanno abitato le aule. Ci sono domande che i docenti, soprattutto alla fine di un anno scolastico, è bene che si pongano prima di entrare in sede di scrutinio (a molti insegnanti sono familiari da tempo): ho messo tutti – tutti gli alunni – nelle condizioni di giocare le loro carte, od ho permesso che il Giovanni di turno si adeguasse alla situazione scolastica senza diventare protagonista attivo della sua crescita cognitiva ed identitaria?
Nella mia azione valutativa, durante l’anno, sono partito dal programma (dalle Indicazioni) che la legge mi impone/propone, dagli obiettivi che io docente mi sono dato; oppure ho osservato e prestato attenzione al percorso che l’alunno ha fatto da un suo punto A ad un punto B, ai processi e strategie cognitive che ha messo in atto e alla “motivazione” che lo ha sorretto nel lungo e faticoso cammino scolastico?
Sono sicuro di non cadere nell’equivoco secondo cui la valutazione degli alunni è direttamente proporzionale alla valutazione del mio agire professionale/ didattico?
Ho ricercato durante l’anno la collegialità con i miei colleghi o mi serve solo ora per non assumermi tutta la responsabilità di un giudizio sui singoli alunni? (le norme ministeriali in tal senso peccano di una certa ambiguità).
Clicca >> qui sotto per continuare l’articolo
Ogni alunno “perso” (per dei recuperi o per una bocciatura) è una domanda forte alla scuola ed al singolo docente. E se numerosi studenti rischiano di “perdersi” scolasticamente parlando significa che forse gli obiettivi stabiliti per una determinata classe (formata da singolari soggetti) erano troppo alti, oppure che le strategie didattiche messe in atto non sono state efficaci per quegli studenti di quella specifica classe. Siamo nel terzo millennio e non è più caso di analizzare gli insuccessi scolastici a partire solo dallo status socio-economico della famiglia di origine. Ben altre le cause che fanno la differenza tra le opportunità di partenza di uno studente rispetto ad un altro. Disturbi generali di apprendimento, situazioni esperienziali che bloccano i processi cognitivi, esperienze problematiche che l’alunno ha vissuto durante l’anno, la “sofferenza” che ha sopportato per riuscire a stare ai compiti di apprendimento e per mantenere la motivazione ad apprendere quando il problema esula dalla sfera cognitiva.
La grancassa della “personalizzazione” dell’insegnamento/ apprendimento viene suonata a ripetizione. Ma veramente sono evidenti ad esperti e ad operatori scolastici le conseguenze che sulla scuola ha tale criterio, compresi i perché e i come di una valutazione? Lascio la parola ad un saggio edito dall’Ocse che mette in chiaro il concetto e la funzione della personalizzazione nella scuola. “L’apprendimento personalizzato esige che in ogni soggetto vengano sviluppate le competenze e la fiducia in sé attraverso strategie d’insegnamento e d’apprendimento costruite a partire dai bisogni individuali. Queste strategie dovranno pertanto cercare di coinvolgere tutti gli allievi, motivandoli a dare il massimo; nello stesso tempo, dovranno dimostrarsi creative nel gestire e nell’organizzare gli insegnanti, le altre categorie del personale e le tecnologie secondo i bisogni, i ritmi e gli stili d’apprendimento riconosciuti. Non si tratta di dare spazio a un rozzo riduzionismo psicologico che prefigura diversi ‘tipi’ di soggetti che apprendono, ma piuttosto occorre riconoscere che l’intelligenza multipla degli allievi esige un ampio e variegato repertorio di strategie d’apprendimento. È indispensabile porre gli allievi nelle condizioni di realizzare appieno le proprie capacità potenziali: bisogna quindi assicurarsi che essi siano capaci di gestire il proprio apprendimento e siano anche pronti ad assumersene la responsabilità” (Ocse, Personalizzare l’insegnamento, Il Mulino).
A queste condizioni la valutazione finale degli studenti smette di trasformarsi in un impegno gravoso per i docenti per diventare un’occasione di “valutazione per l’apprendimento”, definizione ormai in uso in Europa, valutazione cioè che aiuta gli studenti ad orientarsi e ad orientare conoscenze, abilità e competenze verso una maggiore e migliore conoscenza di sé e verso l’assunzione motivata di una fatica per riorientare il proprio impegno, ma anche per compiacersi dei propri progressi. Allora la pagella (ed il rituale colloquio finale alla consegna della stessa) smette di trasformarsi in un momento di timore/ tremore per essere desiderata e accolta come occasione di verifica del proprio diventare grandi, nella mente e in tutte le caratteristiche che costituiscono la propria persona.