Sarà l’estate, con le sue crociere di Stato sulle coste libiche, sarà l’ipertrofia legislativa per cui si continuano a inventare nuovi reati anziché definire aggravanti e attenuanti — si continua cioè a scambiare l’ontologia per la quantità. Sarà per tutto questo o per cos’altro, ma vale comunque la pena, in questi giorni di otium, di prendere o riprendere in mano un autore non troppo in voga come Vittorio Alfieri e — insieme alle sue eccezionali tragedie, Saul e Filippo, almeno — rileggere le interessanti note Della Tirannide, stese tra il 1777 e il 1790 e pubblicate a insaputa dell’autore al culmine del XVIII secolo.
Interessante perché? Perché Vittorio da Asti aveva un’idea chiara e lineare del rapporto tra legge e libertà e di quello tra libertà e libero arbitrio. Soprattutto, perché non poneva nella legge la difesa dei rapporti tra gli uomini né, tantomeno, quella dell’esercizio del libero arbitrio. Che per l’appunto è un esercizio, cioè una pratica costante, qualcosa che “va usato”, perché “averlo” senza usarlo non serve a nulla, se non a credere che non esista.
Concetto sferzante, per un’epoca come la nostra abituata a blaterare di libertà senza arbitrio e ad amare l’arbitrio senza libertà che il potere ci impone. E invece, sostiene Alfieri, non è il fatto che ci sia una qualche legge, a difendere la libertà, ma — montesquieuanamente — il fatto che chi pone in essere le leggi non sia mai, in nessun caso, colui che le fa eseguire; e che colui che le fa eseguire debba rendere conto del suo operato a chi legifera: “Tirannide indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d’impunità. […] Che la differenza tra tirannide e il giusto governo, non è posta (come alcuni stoltamente, altri maliziosamente, asseriscono) nell’esservi o il non esservi delle leggi stabilite; ma nell’esservi una stabilita impossibilità del non eseguirle“ (Della Tirannide, libro I, cap. II).
Siamo lontani anni-luce, è evidente, da quella concezione servile dei rapporti umani e del potere statuale che chiede di continuo il riconoscimento di nuovi reati e l’inasprimento delle pene per quelli già esistenti, nell’illusione eliotiana di creare sistemi così perfetti da non aver bisogno di uomini liberi. Molto più prosaicamente e concretamente, ad Alfieri non interessa estirpare il male, ma favorire l’esercizio del bene. Con questo ideale in mente, diviene fondamentale porre per principio che mai, in nessun caso, il potere legislativo e quello esecutivo, ma più ancora l’esecutivo e il giudiziario, siano nelle mani della stessa persona, perché questa si corromperà e con essa anche il sistema. E — massima prova — qualora anche in un caso la persona in cui sono concentrati i poteri ne facesse un buon uso, darebbe già prova di corruzione nel non approfittare del suo potere assoluto per redistribuire i poteri in mani diverse. È proprio su questo punto che nell’ultima sua tragedia, Bruto secondo, Bruto e Cesare non riescono a intendersi: il primo chiede infatti al padre di rendere il potere a Roma, mentre il secondo continua a insistere di volerlo preservare per consegnarlo al figlio, che eventualmente potrà poi fare ciò che ora chiede a lui.
Questioni di altri tempi, possiamo dirci, ben consci che i tre poteri sono — almeno formalmente — ben distinti, e che noi possiamo rassicurarci combattendo le “derive autoritarie” dei ben noti e circoscritti pubblici birboni. Eppure alcune delle note alfieriane non paiono così distanti dai discorsi che capita di sentire in tv, sui social o — per chi ancora le frequenti — per la via: “Questi assoluti re sanno dunque benissimo, che fra monarchia e tirannide non passa diferenza nessuna. Così lo sapessero i popoli, che pure con la loro esperienza lo provano! Ma i principi europei, di tiranni tengono caro il potere, e di monarchi il nome soltanto: i popoli, all’incontro, spogliati, avviliti, ed oppressi dalla monarchia, la sola tirannide stupidamente abborriscono” (Della Tirannide, libro I, cap. II).
Arriviamo, come sempre, ai nomi e alle cose, alla libertà anzitutto di fronte ai nomi delle cose. La libertà di Perez, per esempio, che si condanna a una cruda morte affermando che la verità, più che “la fuori”, è “qui e ora”. O lo sarebbe, se non fosse ormai un delitto troppo grave il dirla:
[…] Al cielo io pure
miei voti innalzo: al ciel palese appieno
è il ver… Ma che dich’io? soltanto al cielo?…
S’io volgo intento a me dattorno il guardo,
non vegg’io che ciascuno appien sa il vero?
che il tace ognuno? e che l’udirlo, e il dirlo,
qui da gran tempo è capital delitto?
(Filippo, atto III, scena V)