Carlo Rovelli, fisico teorico recente vincitore del premio letterario Merck, su Repubblica ha dato voce a un sentire piuttosto diffuso tra scienziati e tecnologi: il livello della cultura scientifica dell’italiano medio è piuttosto basso. Lo scritto citato addirittura titola “Perché siamo il paese dell’incultura scientifica” e l’occhiello rincara definendo amara la riflessione dello scrittore. Nulla da obiettare sul contenuto: è la precisa fotografia di un paese che ha perso la passione per l’innovazione scientifica e che si crogiola nel suo passato umanistico e artistico, dimenticando la lezione di Galileo.
Lo scenario di Rovelli, condivisibile da chi, come chi scrive, per vent’anni l’ha osservato dall’estero, non si dilunga su processi e responsabilità che hanno prodotto un risultato evidente quasi solo per la corporazione degli scienziati. È invece di situazioni e cause che contribuiscono al prevalere dell'”incultura” relativa a scienze propedeutiche alle applicazioni tecnologiche che si discute in questa nota.
La prima considerazione riguarda le nostre istituzioni scientifiche: sono poco conosciute e non godono della popolarità che, per esempio, in Germania ha la Max Planck Gesellschaft, che, tra le istituzioni pubbliche di quel paese è seconda nella considerazione dei cittadini solo alla Corte dei Conti. D’altra parte, il mito dei successi del Max Planck deriva dai trentacinque Nobel che la Società scientifica ha ottenuto in un secolo e la cultura scientifica di uno Stato vive anche di questo: tra le molte università e enti scientifici italiani non emerge qualcosa di paragonabile all’esempio citato. E invece l’eccellenza va coltivata, perché non solo è un valore per sé ma dà anche un’idea di scienza che colpisce l’immaginazione popolare.
Una seconda considerazione prende spunto da uno strumento musicale, l’organo. Questo è composto da molte canne: ciascuna suona la propria nota e insieme producono armonie. Così è la società civile: molte istituzioni indipendenti possono creare in sinergia qualcosa che funziona, ma l’indipendenza delle singole istituzioni è altrettanto vitale perche i cittadini riconoscano il ruolo di ciascuna. Purtroppo in molte occasioni la scienza ha delegato o confuso il suo ruolo con quello della politica. Quante volte ho osservato la formazione di cordate ispirate a parti politiche che scalavano facoltà, rettorati e accademie! In queste situazioni è difficile poi che le scelte professionali fatte dagli scienziati non siano in parte viziate da considerazioni estranee alla sola scienza. E questo non ottimizza né il livello professionale di professori e ricercatori, né la considerazione che il cittadino ha di loro.
Proseguendo. Nel paese i responsabili delle istituzioni scientifiche sono spesso presentati dai media facendo riferimenti al loro ruolo: rettori, presidi, responsabili di dipartimento, presidenti di enti. Meno frequentemente per quanto hanno scoperto o pubblicato. Questo, in parte, dipende dal disaccoppiamento che, all’interno delle istituzioni, si è creato tra merito scientifico e progressione nelle carriere di governance, carriere che privilegiano le capacità manageriali ma si dimenticano dei meriti scientifici.
Per questo, forse, l’impressione dei fruitori dei media è di trovarsi di fronte a burocrati e non a entusiasti profeti della bellezza e utilità della scienza, e di come la stessa prepara il futuro. Da qui una possibile origine del disinteresse pubblico: la condivisione di quanto si ascolta dipende dalla capacità di un relatore di trasmettere una verità a cui crede, specialmente se ha contribuito a scoprirla.
Un’ ulteriore causa dell’incultura scientifica riguarda l’isolamento degli scienziati dal resto della società, “solitudine” che in parte deriva da un antico malinteso: il desiderio di essere professionalmente puri, desiderio che per ragioni anche ideologiche ha escluso dagli organi di gestione delle istituzioni scientifiche componenti vitali rappresentate dall’industria, dal terziario e dalle professioni. È il paese reale che reagendo ignora chi lo esclude contestualmente sottovalutando quanto scienza e tecnologia contribuiscono all’organizzazione delle società moderne.
Avrete notato che la mia discussione, pur viziata da una visione di parte, addebita una parte significativa della “incultura” scientifica degli italiani agli operatori scientifici. Tuttavia, la situazione delineata da Rovelli va inquadrata anche nel contesto politico, sociale e mediatico nel quale il paese è immerso, a sottolineare che altre cause e situazioni agiscono sulla credibilità e accettabilità di quanto la scienza propone o spiega. Mi riferisco al clima di apoteosi del passato che permea specialmente i media e la politica, atteggiamento che addirittura vede forme di rinascita industriale legate solo al made in Italy di un finto “come una volta”, non considerando per il paese le grandi avventure tecnologiche. L’atteggiamento riguarda molti settori artigianali − quello alimentare incluso −, la de-industrializzazione di interi distretti produttivi, l’eccessiva fiducia nel passato umanistico dell’Italia come traino di un turismo eletto a forma primaria di salute economica e, in generale, la diffusa convinzione che le produzioni primarie debbano passare in sott’ordine nei confronti della capacità di creare “valore aggiunto”.
È in questo contesto che nei media si attenua il ruolo delle scienze dure, quelle propedeutiche allo sviluppo tecnologico, e che, indipendentemente dalle responsabilità degli scienziati, la società dimentica assumendosi precise colpe: dai mancati sostegni all’insegnamento scientifico nelle scuole primarie e secondarie, ai bassi investimenti nello sviluppo di adeguate sedi universitarie e cluster di ricerca, alla mancata formulazione politica di credibili ipotesi di sviluppo futuro.
Come noterete le responsabilità sono molte e di molti: e Rovelli, sul tema, ha avuto finalmente il coraggio di aprire una necessaria discussione.