In Giobbe l’uomo di ogni tempo può facilmente riconoscere se stesso: privato di ogni suo bene, compresa la salute, egli rifiuta la falsa consolazione religiosa dei suoi amici e rivolge il suo grido direttamente a Dio: “L’Onnipotente mi risponda!”. E Dio, che conosce più di ogni altro il cuore di Giobbe, così audace e così retto nel cercare la ragione del male, raccoglie la sfida e lo induce a riconoscere la sua presenza nascosta sotto la bellezza e il turbine della creazione. Dio ama Giobbe: sa che egli persiste nella vera fiducia in Lui e lo conduce sulla soglia del Mistero. Allora Giobbe accetta e tace. Anche Dio tace e opera, ridonandogli tutto.
Un libro di Joseph Roth, Giobbe. Romanzo di un uomo semplice, pubblicato a Berlino nel 1930, tre anni prima che l’avvento del nazismo costringesse il suo autore ad abbandonare la Germania, ripercorre la storia del Giobbe biblico. Narra di un pio ebreo orientale, Mendel Singer che, costretto ad emigrare in America e sopraffatto dalle disgrazie della sua famiglia e dalla dispersione del suo popolo, si ribella fino alla bestemmia.
Quando cominciavano i primi rumori nelle vie, Singer cominciava la giornata. Nel fornello a spirito bolliva il tè. Lo beveva mangiando un uovo sodo col pane. Gettava un’occhiata timida ma cattiva al sacchetto con gli oggetti sacri appeso alla parete. “Io non prego!” si diceva Mendel. Ma non pregare gli faceva male. La sua ira lo addolorava, e l’impotenza di quell’ira. Sebbene Mendel fosse in collera con Lui, Dio reggeva ancora il mondo. L’odio non poteva toccarlo, né più né meno della devozione. Prima, si rammentava, il suo risveglio era lieve, la lieta attesa della preghiera lo destava e il piacere di rinnovare la consapevole vicinanza a Dio. Dal grato tepore del sonno penetrava nell’ancor più segreto, ancor più intimo splendore della preghiera, come in una sala sfarzosa eppure consueta, in cui abitava il potente ma sorridente padre. “Buon giorno, padre!” diceva Mendel Singer – e credeva di sentire una risposta. Un inganno era stato. La sala era sfarzosa e fredda, il padre era potente e cattivo. Sulle sue labbra non venivano altri suoni fuorché il tuono.
Ma è così vero che Dio governa il mondo che anche a Mendel Singer viene ridonato tutto, o quasi. Ritrova il figlio malato, lasciato in Europa e ora grande musicista. E il ricordo della moglie morta, la pena di una figlia pazza non sono più uno strazio, ma l’inizio di una grande dolcezza:
“Gravi peccati ho commesso, il Signore ha chiuso gli occhi. Un funzionario io l’ho chiamato. Lui si è tappato gli orecchi. E’ così grande che la nostra cattiveria diventa piccolissima”. E si riposò dal peso della felicità e dalla grandezza dei miracoli.
Di tutt’altro tenore il più recente Giobbe di Fabrice Hadjdaj, saggista e drammaturgo francese, in una breve e densa pièce teatrale, pubblicata da Marietti 1820 con la prefazione del cardinale Ravasi e rappresentata all’ultimo Meeting di Rimini. Come rileva la nota introduttiva di Sandro Lombardi, qui non c’è alcun crollo di Giobbe nella bestemmia; egli rimane saldo nell’accettazione del male misterioso che è così mescolato alla gioia della creazione e che ha corroso brano a brano i suoi beni, i suoi cari, il suo corpo. Egli attende lo svelarsi di ciò che non sa e che non pretende di sapere, a differenza dei suoi amici che lo tentano con vari inganni. Prologo ed epilogo, che vedono il dialogo tra Dio e Satana, fanno da cornice e da cifra interpretativa della lotta di Giobbe contro la menzogna.
Un Dio vicino, è stato giustamente detto; un Dio di cui qualche battuta lascia intravvedere il volto crocifisso, un Dio vicino al Nuovo Testamento più che quello confinato nell’Antico come quello di Roth. Se c’è una pecca a questo testo, forse inevitabile per il genere letterario, è qualche esagerazione barocca del linguaggio, qualche contrapposizione troppo studiata. La lettura trarrebbe una commozione maggiore con una scrittura più calma, che prenda il testo biblico come sua guida non solo per il suo nodo problematico, ma anche per la sua imponente semplicità.