Durante il convegno La qualità della scuola pubblica e privata in Italia, svoltosi presso l’Università di Milano-Bicocca lo scorso 28 aprile, i ricercatori dell’Invalsi hanno presentato i dati relativi agli apprendimenti degli studenti delle scuole statali e paritarie nell’anno scolastico 2009-10. Tale presentazione è stata importante per diverse ragioni.
In primo luogo, i dati dell’Invalsi possono aiutare a fare chiarezza in un dibattito, relativo ad una comparazione dei risultati dei diversi settori della scuola pubblica (quello statale e quello paritario), che è stato tradizionalmente caratterizzato più da pregiudizi che da evidenze. Inoltre, i dati dell’Invalsi si riferiscono non ad un campione di scuole, bensì all’intera “popolazione” – in questo modo, evitando i problemi metodologici connessi al campionamento. Con riferimento a questo specifico aspetto, preme qui sottolineare che tali dati sono notevolmente più significativi di quelli (assai più spesso citati) dell’indagine internazionale Oecd-Pisa, sia perché questi ultimi sono “viziati” dall’inclusione della formazione professionale (che è realizzata da scuole non statali e non paritarie), sia perché l’indagine Pisa non è rappresentativa a livello di scuola, bensì a livello di individui: pertanto, qualunque confronto tra tipologie di scuole è metodologicamente debole. Infine, i dati Invalsi mettono in evidenza come, nonostante l’inclusione di tutte le scuole nell’analisi, sia comunque necessaria qualche cautela nell’interpretazione dei dati che emergono, anche a causa della limitata capacità di misurare (e quindi “modellare”) tutti i diversi fattori che incidono sui processi di apprendimento degli studenti.
Cosa dunque è emerso dalla presentazione dei ricercatori Invalsi? Dall’osservazione dei punteggi medi di scuola, si osserva come tendenzialmente, sia al Nord che al Centro, gli studenti delle scuole paritarie abbiano score di apprendimento più elevati. Con riferimento ad italiano nelle classi prime della scuola secondaria di I grado, ad esempio, le scuole paritarie hanno punteggi più elevati di circa 4 punti (al Nord, 67% di risposte corrette contro il 63% delle statali; al Centro, 65,6% contro 62,7%). Tali effetti sono più pronunciati nella scuola secondaria di I grado che non nelle scuole primarie, dove invece le differenze sono meno marcate. Infatti, mentre nella scuola secondaria di I grado (classi prime) la differenza positiva per le scuole paritarie (rispetto alle statali) si evidenzia in tutte le aree geografiche, nelle scuole primarie tali differenze sono significative solo al Nord, mentre al Centro le performance sono sostanzialmente identiche – ed al Sud addirittura le scuole statali hanno prestazioni migliori (ad esempio, 58% versus 52% in italiano, e 55% versus 46,7% in matematica – classi seconde). Tutti questi dati sono stati opportunamente “corretti” per tenere conto dell’esistenza di fenomeni di cheating (ossia di suggerimento delle risposte corrette da parte dei docenti, fenomeno presente soprattutto nelle scuole del Mezzogiorno).
L’analisi ha poi considerato il potenziale impatto della condizione socio-economica degli studenti. Per la prima volta, infatti, l’Invalsi ha rilevato un indicatore di questo tipo a livello di singolo individuo, per tutti gli studenti delle classi V della scuola primaria e delle classi I e III della secondaria di II grado. Tale indicatore è calcolato in analogia a quello proposto ed utilizzato nell’ambito dell’indagine Oecd-Pisa, e pertanto ne condivide analoghe debolezze (in particolare, (i) utilizza indicatori “indiretti” di status – come la professione dei genitori – in luogo di indicatori “diretti” e (ii) utilizza auto-dichiarazioni degli individui in luogo di record amministrativi).
In ogni caso, la raccolta e l’elaborazione di questi dati consente alcune riflessioni ulteriori. In particolare, l’Invalsi ha messo in luce come la composizione delle scuole non statali paritarie sia molto differente da quella delle scuole statali, sia con riferimento all’incidenza (più bassa) di studenti disabili e stranieri, sia per l’incidenza (più elevata) di bambini/ragazzi provenienti da famiglie in condizioni socio-economiche avvantaggiate. Attraverso un’analisi multilivello, i ricercatori dell’Invalsi hanno incluso queste caratteristiche tra le possibili spiegazioni della differenza di prestazioni tra scuole statali e paritarie, ed hanno mostrato come la variabile “scuola paritaria” sia quasi sempre statisticamente non significativa – ed anzi, talvolta significativa con un lieve coefficiente negativo.
Per stessa ammissione dei ricercatori Invalsi, tuttavia, è difficile sostenere che la sola inclusione della variabile “scuola paritaria” sia capace di descrivere gli effetti derivanti dalla frequenza di una scuola di questo tipo; anzi l’analisi sembrerebbe suggerire che a tal fine sarebbe necessario differenziare tale effetto almeno per area geografica e grado scolastico – oltre che, ovviamente, “condizionare” tale effetto alle altre caratteristiche delle scuole.
A partire dalla presentazione dei dati Invalsi, pertanto, è possibile a mio avviso proporre tre riflessioni di carattere generale. Primo, è solo attraverso l’analisi dei dati – e non la proposizione di pur legittime ed interessanti opinioni – che si può cercare di approfondire una caratteristica molto importante del sistema scolastico del nostro Paese, ossia quella dell’integrazione tra settore statale e paritario nel nostro sistema educativo pubblico. L’analisi dei dati richiede, tuttavia, un certo impegno non solo empirico, ma anche teorico: in altre parole, è necessario domandarsi in modo scientificamente rigoroso quali siano i fattori di differenza tra scuole statali e paritarie che dovrebbero emergere come potenziale effetto sugli apprendimenti.
Per questa ragione, la seconda conseguenza è che gli esercizi di rilevazione dell’Invalsi devono continuare poiché, nonostante le loro limitazioni (peraltro consapevolmente esposte dagli stessi ricercatori dell’Istituto), hanno rappresentato una svolta nel nostro sistema scolastico, promuovendo una idea della valutazione come fattore imprescindibile per le politiche nel settore. Anche se, in realtà, tali politiche stentano poi ad essere discusse e attuate (sia la maggioranza che l’opposizione tendono a essere “legate” alle proprie idee precostituite), la direzione intrapresa sembra corretta, e si può confidare sui suoi possibili effetti nei prossimi anni. Mi auguro, così, che le prove previste nei prossimi giorni (per l’a.s. 2010/11) si svolgano correttamente e, anzi, con il forte supporto di tutte le componenti delle scuole.
Infine, i dati a disposizione mettono in evidenza un limite concettuale del nostro sistema di interpretazione del ruolo educativo delle scuole. Infatti, i dati si concentrano esclusivamente sugli apprendimenti; non per colpa dell’Invalsi – che ha nella rilevazione degli apprendimenti la propria mission istituzionale – bensì per demerito di coloro che si occupano di scuola a vario titolo (insegnanti, presidi, sindacati, politici, accademici) i quali hanno abdicato al proprio compito di suggerire modalità di valutazione (e misurazione) dei risultati non cognitivi dell’educazione, quali le abilità relazionali e lo sviluppo della personalità, “accontentandosi” di avere qualche informazione sugli apprendimenti. La ripresa del dibattito accademico internazionale su questo punto potrà essere di aiuto in questo senso; occorre tuttavia che i diversi attori della scuola nel nostro Paese depongano le armi del dibattito fine a sé stesso e si confrontino, invece, su questi delicati e impegnativi temi.