L’azione umana ha sempre bisogno di regole; tanto più l’agire sociale. Dei regimi politici la democrazia, in quanto regime partecipativo, è quello in cui la regola ha il massimo rilievo: regole per l’espressione del consenso, per la definizione della rappresentanza, per il bilanciamento dei poteri, per l’equa partecipazione, ecc. Ma che la democrazia abbia essenzialmente bisogno di regole di funzionamento non significa che essa consista in un ben costruito sistema di regole: le regole della democrazia non significano democrazia delle regole. La “normalità” democratica non consiste nel funzionamento di un assetto normativo; così come la relatività storica dei princìpi democratici non significa che l’idea democratica sia filosoficamente relativista.
L’idea democratica rinasce nella modernità (dopo gli esperimenti antichi, medievali e primo-moderni) non solo per contrastare l’accentramento del potere nelle persona del sovrano e poi nell’apparato opprimente delle dittature e dei totalitarismi, ma anche per rendere possibile la condivisione attiva del bene politico comune. Senza bene comune attivamente condiviso, della democrazia resta un vestigio formale.
L’ideale democratico, infatti, non si concentra nelle sue procedure partecipative (che ne sono la componente strumentale), bensì nell’idea che la politica significa condivisione del bene politico stesso, cioè di quel bene che consiste nella stessa con-vivenza sociale, assunta e istituzionalizzata nella comunicazione politica. Bene comune, dunque, che non è né una somma di beni, né una certa opera comune, ma il bene dell’operare in comune, condizione preliminare di ogni altro bene e opera.
Il giudizio di valore della convivenza, che sta a fondamento del politico, può essere giustificato in molti modi dal punto di vista teorico e speculativo: la democrazia è il regime pensato per rendere possibile la partecipazione politica in condizioni di massimo pluralismo ideologico. Ma implica, comunque, con il diritto di partecipazione diretta alla cosa pubblica, anche l’impegno di promozione delle relazioni e delle opere sociali.
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Al contrario, senza la condivisione del giudizio di valore, fondamentale e fondatore, che sia bene il cooperare, non si istituisce vita politica e, senza ravvivarne culturalmente e moralmente la convinzione, la politica si riduce a tecnica di organizzazione e a gestione di potere sullo sfondo di una conflittualità civile mai risolta. Senza un ethos della convivenza la politica tende al suo azzeramento e il potere, sempre meno “politico” e sempre più lobbistico (in senso tecnologico, finanziario, ideologico e quant’altro) gestisce in presa diretta la società, alimentando sempre più conflittualità e fornendo sempre meno vie per la sua regolazione, in una spirale pericolosa per la democrazia, sostanziale e formale.
Perché, dunque, la vita democratica tende a svuotarsi di motivazione reale sino a ridursi al simulacro procedurale di se stessa? I politologi hanno molto da dire in proposito. Dal punto di vista di una riflessione di etica pubblica la prima evidenza è che il senso del bene comune può, anzi deve/dovrebbe essere alimentato e sostenuto da una vita “politica” degna del suo nome; ma che, tuttavia, non ha origine dalla vita politica. Un ethos della convivenza sta a fondamento del politico e quindi logicamente lo precede, nella vita civile, nelle gradi tradizioni religiose (senz’altro quella cristiana), nelle forme della cultura, nelle pratiche educative, ecc. È il problema posto, ormai da molti, delle sorgenti prepolitiche del liberalismo democratico.
Ma se gli orientamenti cultuali prevalenti o, meglio, fatti prevalere nell’opinione pubblica e nel vissuto più condiviso, erodono tale patrimonio del convivere o ne isteriliscono le sorgenti, la democrazia perde la sua sostanza vitale e finisce per deformare la sua stessa idea. Si comprende allora che si inneschi un processo per cui il pluralismo, di cui la democrazia è espressione politica, perde il senso del bene comune; per cui a un pluralismo “assoluto”, senza il vincolo del bene della convivenza, non restano che regole e procedure; per cui regole e procedure autoreferenziali perdono la loro legittimazione (più vengono affermate, meno vengono rispettate); per cui, alla fine, allo svuotamento del politico non segue il nulla, ma aggregazioni di potere alla stato (chimicamente) “puro”, cioè la morte della democrazia.