Il titolo di un libro, come si sa, viene sempre per ultimo: ma nel caso del volume di cui sto parlando, Far crescere la persona. La scuola di fronte al mondo che cambia (ed. Fondazione per la Sussidiarietà, 2016) si può in un certo senso dire che l’intero testo sviluppa due concetti fondamentali: il primo, che la scuola non può restare immobile di fronte al mutamento sociale, e il secondo che il contenuto di questo suo muoversi sia innanzitutto non una formula tecnica, ma la scelta di un approccio globale che metta l’alunno al centro; non nel senso tutto sommato retorico in cui ne parlano in premessa le riforme, ma tentando di dare vita a concrete proposte di cambiamento.
Coerente con il titolo, il volume completa un’ampia parte teorica con una rassegna di esperienze incompleta, modesta, tutta da far crescere, ma che testimonia come già ora, pur con tutti i limiti posti da una normativa che pare non favorire, ma ostacolare attivamente il cambiamento. L’ipotesi degli autori, resa esplicita nella parte finale, è che solo una piena autonomia delle scuole consenta di rispondere alla domanda di formazione del XXI secolo, una piena autonomia che superi la divisione solo amministrativa fra pubblico e privato: e infatti le esperienze presentate sono sia di scuole paritarie che statali, e mostrano che la passione educativa fa saltar via le etichette burocratiche.
Più nel dettaglio, si parte da un ampio e analitico discorso introduttivo di Onorato Grassi (ma forse sarebbe più esatto definirlo “fondativo”) sul ruolo delle scuola nella società che cambia, in cui viene spesso introdotta una distinzione artificiosa e scorretta fra la crescita integrale della persona e la domanda del mercato del lavoro. Accanto alle finalità “alte” dell’educazione, come la “conquista personale della verità”, l’ “educazione dell’intelligenza”, il “superamento delle visioni ridotte” è necessario tenere presente la capacità di trasformare il mondo, che non significa subordinare il processo educativo alle variabili economiche o politiche, ma mettere in grado i giovani di muoversi in modo critico nella realtà in cui vivono, valorizzando l’intelligenza delle mani e quella della mente.
Le mutate condizioni della produzione illustrate da Paola Garrone richiedono il possesso di una serie di conoscenze, capacità e competenze che sono sia cognitive, sia non cognitive, legate a caratteristiche come i tratti della personalità, gli aspetti del carattere, le dimensioni socio-emozionali, tutti fattori che attengono alla sfera relazionale, a quella capacità di entrare in rapporto con l’altro da sé che include il mondo, le persone, Dio, e che genera senso di appartenenza e di responsabilità, come emerge con estrema chiarezza dalla Laudato si’.
I contributi dei diversi autori evidenziano il ruolo dell’educazione e delle agenzie educative nel promuovere lo sviluppo personale e sociale, e sottolineano come i compiti delle agenzie tradizionali (la scuola, la famiglia, il gruppo dei pari, gli stesso media della comunicazione di massa) debbano essere rivisti alla luce del pervasivo dominio, fra le giovani generazioni, della Rete, dei social, dei processi sempre più veloci e sofisticati di comunicazioni.
Un buon educatore deve essere consapevole del fatto che nell’interazione virtuale la qualità dell’esperienza è analoga a quella dei rapporti con i pari o con gli adulti, ma deve saper costruire relazioni faccia a faccia significative, in cui restano presenti due elementi fondamentali per la crescita, l’idea della responsabilità e l’esperienza del principio di autorità, che entrano anche a comporre la dimensione etica e che sono invece assenti nel mondo virtuale.
I contributi di Giuseppe Folloni e Giorgio Vittadini, Tommaso Agasisti e Piergiacomo Sibiano ci presentano un tema di grande interesse, e cioè la nuova accezione del concetto di competenza, e del ruolo che svolge nella formazione del capitale umano, che nel corso del volume viene ad assumere un significato molto più vasto di quello economicistico. Se le caratteristiche del mutamento che attraversa la società potenziano il peso delle abilità non cognitive, diviene centrale un concetto relativamente nuovo per gli economisti e per gli studiosi di educazione, quello di character, un concetto difficilmente traducibile che indica “non isolati aspetti dell’essere umano, ma un suo globale tratto che ha a che fare con ciò che caratterizza il profilo indivisibile e irripetibile della persona umana”, e che sul piano educativo, come nota in un suo testo il sociologo Andrea Maccarini, ha come conseguenza “un crescente interesse sui progetti educativi rivolti al “bambino intero”, cioè allo sviluppo personale al di là della misurazione degli esiti accademici.
Il “bambino intero” ha in sé una dimensione di progettualità, di unicità, di collaborazione con gli altri che non può essere ridotta ai suoi saperi, ma li valorizza come mattoncino di base per la costruzione di ogni singolo edificio. Come dicono ancora Folloni e Vittadini, “tutte e tre le funzioni di un processo educativo, dunque, generazione di basic skill, competenze professionali/tecniche, personalizzazione di funzioni complesse, allargano le capacità: quelle individuali, quelle collegate al dialogo e al giudizio critico sulle condizioni esterne, quelle che definiscono principi e modalità di comportamento, ciò che è ritenuto giusto e opportuno e ciò che non lo è, vale a dire le dimensioni che riguardano il modo di stare di fronte al reale, nelle sue caratteristiche quotidiane”.
Queste modalità di educazione che si stanno rivelando non solo centrali, ma essenziali nella società attuale, e probabilmente ancor più in futuro, comportano anche delle conseguenze sul modello organizzativo. Nel recupero delle agenzie tradizionali e nel dialogo con le nuove, essenzialmente le rete, la scuola così come siamo abituati a pensarla rischia di uscire sconfitta, come mostrano da un lato la tentazione di recuperare forme premoderne, come l’educazione esclusiva in famiglia (home schooling), e dall’altro l’ipotesi che si possa sostituire con le tecnologie la relazione educativa.
Se vuole sopravvivere con un ruolo, e non semplicemente come struttura burocratica, la scuola deve puntare su due termini strettamente collegati: autonomia e qualità, che possono essere garantiti forse non esclusivamente, ma sicuramente in modo assai più efficace da un sistema che superi la distinzione fra “pubblico” e “privato” (o “paritario”), alleggerendo ma potenziando i compiti del centro: programmazione, valutazione, ricerca. Rinvio ai contributi di Berlinguer e Masi per un approfondimento legato all’Italia, ed è fondamentale sottolineare il ritardo con cui nel nostro paese si tratta di un tema che è all’attenzione delle organizzazioni internazionali da almeno dieci anni.
Non intendo dilungarmi su di un aspetto particolare — il modello organizzativo — in un testo che ha il proposito di fornire spunti di riflessione che vadano oltre il contesto italiano, ma la maggior parte degli studi sull’efficacia della formazione scolastica sottolinea che, dei tre fattori che possono spiegare le differenze di riuscita fra gli studenti (la famiglia, il modello istituzionale e le caratteristiche della singola scuola), quello che la il peso maggiore è il modello organizzativo, e il più efficace è quello che prevede il finanziamento centrale, un’elevata autonomia delle scuole e la possibilità di concorrenza fra scuole pubbliche e private. Non ci sono automatismi, ma resta il fatto che in tutte le nazioni che hanno conosciuto un forte sviluppo, l’educazione è stata una priorità. Una scuola non autonoma, come di fatto in Italia, e in cui la parità fra sistema statale e non statale è ben lontana dall’essere attuata, e in cui la quasi totalità degli investimenti è gestita dal centro e destinata a pagare il personale, certamente non agevola il miglioramento, perché tende alla standardizzazione e non consente di sviluppare in modo adeguato sia le abilità cognitive che quelle legate alla personalità.
La parte centrale del testo, quasi un work in progress, presenta otto diverse esperienze che in qualche misura hanno cercato di trovare una soluzione a nodi centrali del sistema, dalla valutazione all’alternanza, dalla rilevanza dei saperi alla socializzazione di base. La rassegna, si è detto, non è esauriente, ma costituisce l’indicatore che il mondo della scuola si è già rimboccato le maniche e ha dato origine a momenti di cambiamento che sembrano essere, fortunatamente, contagiosi. L’obiettivo di un volume di questo genere, io credo, potrebbe dirsi raggiunto se nella seconda edizione le esperienze fossero non più otto ma sedici, o ventiquattro, o comunque quanto scritto in queste pagine desse ai molti valorosi “militi ignoti” che quotidianamente si spendono nelle aule senza nessun riconoscimento se non la stima e l’affetto dei loro ragazzi l’idea che non sono soli, e che il loro lavoro non è inutile.