Alcuni contributi al dibattito avviato su queste pagine in merito all’attuale scuola media hanno suscitato perplessità in chi con coscienza lavora in questo delicato settore. Si rimane un po’ sbalorditi di fronte alla riproposizione di formule che nella realtà scolastica recente hanno dimostrato tutti i loro limiti.
Si prenda, ad esempio, i gruppi di livello. Chiunque li abbia sperimentati si sarà accorto che, se condivisibili sul piano teorico, nella pratica hanno prodotto deludenti risultati, soprattutto nella fascia che si intendeva più tutelare. Gli alunni in difficoltà, infatti, si sono trovati a lavorare in gruppi in cui fatalmente si ingenerava una deleteria coalizione al ribasso. Ugualmente, la teoria dei percorsi formativi personalizzati, che forse cercava di regolamentare il buon senso, per la rigidità con cui era stata formulata, si è trasformata in un mero formalismo burocratico, difficilmente applicabile nel momento in cui si hanno non meno di 25 studenti in classe (oltre ad introdurre aspettative che non trovano riscontro nella realtà lavorativa).
Lo sconcerto poi aumenta quando si vede circolare nuovamente l’idea che l’insegnamento dei contenuti, definiti come «imposti dall’alto», è frutto di un’impostazione elitaria e anti-democratica. Qualunque adulto provi ad aprire i manuali attualmente in auge, li confronti con il ricordo dei propri e apprezzerà di certo la qualità raggiunta dalla grafica, ma avvedendosi dell’evidente esiguità di contenuto, non potrà non sospettare che ciò comporti, come minimo, assenza di chiarezza e fascino, e renda, già di per sé, un po’ più comprensibili i tanti sbandierati insuccessi dei nostri alunni. I test Ocse-Pisa e Invalsi hanno avuto il merito di aprire il vaso di Pandora, ma attenzione a trarne le giuste conseguenze. Da riformare, perché inefficace, è la scuola in sé o quello che è diventata negli ultimi anni? Rimaniamo ancorati al metodo dell’osservazione. Si leggano le relazioni finali con i programmi svolti (documenti accessibili a tutti) di più scuole o anche solo di insegnanti dello stesso istituto. Ci si accorgerà di difformità macroscopiche, ma paradossalmente abbastanza lecite da quando i programmi ministeriali sono scomparsi (per poi ritornare sotto forma di indicazioni spesso fumose e vaghe), e il compito degli ispettori è stato ristretto al rilevamento di vizi di forma nella compilazione dei registri.
Ci si chiederà allora come si sia giunti a questo punto. Passo dopo passo. Prima si svilirono i contenuti declassandoli a nozionismo (ma erano i contenuti proposti a non essere più validi, o i cambiamenti nella società ci avevano resi incapaci di riconoscerne il valore?). Poi li si sostituì con tecnicismi e formalismi più adatti a studi specialistici. All’inevitabile insuccesso, si rispose concentrando tutte le attenzioni sulla metodologia. Tale scelta non era peregrina, perché nel frattempo in particolare nel biennio dei licei, ma non solo, l’idea estremizzata della scuola selettiva aveva portato gli insegnanti a trasformarsi in puri selezionatori, sollevandoli dall’onere della spiegazione. Era l’alunno che doveva dimostrare di essere all’altezza a prescindere dalla qualità del lavoro offerto. Si arrivò così a considerare l’insuccesso scolastico come un’ inconfutabile prova della serietà dell’insegnante e dell’istituto. Da questo estremo si passò però al suo opposto. I limiti di tale operazione non sono stati solo gli eccessi di lassismo che ben tutti conosciamo, ma il fatto che si assolutizzava la ricerca sui metodi, senza aver preliminarmente recuperato il senso vero di ciò che, attraverso di quelli, si intendeva proporre.
Rispetto a tutto ciò, la soluzione che preveda oggi una seria riproposizione dei contenuti, è un anacronistico ritorno al passato? Pecca delle stesse colpe prima mosse ad altri, ovvero riproporre qualcosa che, se è stato abbandonato, era forse inefficace?
A risposta fornisco qualche breve esempio, frutto della mia esperienza, nata dall’incontro, nella scuola privata e statale, di ottimi colleghi e di ottimi manuali, decisamente contro corrente. Provate, per esempio, a far legger l’Iliade o l’Odissea ai ragazzi di prima media; va bene anche una versione in prosa, purché ben scritta e fedelissima. Leggetela voi, perché molti di loro lo farebbero talmente male da annoiare in primo luogo se stessi. Osservate i loro occhi mentre narrate le epiche imprese degli eroi: alla fine voi farete ancora confusione con i nomi dei personaggi secondari, loro no, perché l’avranno gustata con lo slancio immaginativo tipico dell’età, capace di annullare i confini (per una volta positivamente) tra realtà e fantasia. Allo stesso modo proponete, aiutandovi con la parafrasi, l’Inferno di Dante. Non solo non potranno non rimanere colpiti dalle immagini. Fateli ragionare, ad esempio, sugli ignavi: chi più dei ragazzi, testimoni spesso silenti di fenomeni di bullismo, può capire?
Si obietterà che questo è scimmiottare i programmi delle superiori. Non è vero, per varie ragioni: in primo luogo per quella capacità di immergersi nel testo, che poi fatalmente crescendo si perde quando vengono a prevalere giustamente altri approcci, ma che più di questi lascia nella mente un’impressione indelebile, anche quando le nozioni specifiche saranno dimenticate. Non in tutti settori ci sarà la possibilità o il tempo di affrontare questi autori. Le medie rappresentano l’occasione per far incontrare a tutti, proprio a tutti, opere letterarie e non che da sempre sanno interpellare gli animi. Lo stesso discorso vale, infatti, anche per tutte le altre materie, soprattutto poi per musica, arte e tecnica che non sono presenti in tutti i piani di studio delle superiori. Non importa se gli alunni coglieranno solo una piccola parte della miriade di spunti possibili; se la fonte è meritevole non può che contribuire ad avviare un percorso interiore di sostanza. In Germania, ad esempio,dove la scuola media non c’è e si sceglie la scuola superiore a dieci anni, si ha sì il rischio di discriminazione: da un lato alunni aperti alla cultura, dall’altro ragazzi che termineranno gli studi avendo imparato un mestiere (e questo è un indiscutibile bene da imitare), ma saranno totalmente privi di formazione culturale con le svariate e inevitabili ripercussioni che ciò comporta. La nostra scuola non era così, forse lo sta diventando.
E’ infine importante affrontare almeno un altro punto, tra quelli emersi. Se bastasse cambiare i nomi per sanare i problemi di incomunicabilità tra settori o presunti sentimenti di inferiorità verso qualsivoglia ambito superiore, nella scuola basterebbe estendere a tutti i docenti la denominazione di “ordinario”. L’idea di inferiorità, origine di altri mali e chiusure, nasce negli insicuri del senso del proprio agire, o nei saccenti, incapaci di riconoscere che il successo di un docente è, almeno in parte, determinato dalla serietà ed efficacia di chi lo ha preceduto. Proporzione destinata a crescere con l’innalzarsi dei livelli, come ben sanno gli accademici di fronte ai risultati disperanti dei test di ingresso. Il problema non è né nel variare gli addendi (5+3 o 3+2+2), né nelle denominazioni, come ben ha dimostrato il cambiamento di sigle (elementare/ primaria ecc.). Non serve, io credo, snaturare ciò che c’è, ma al contrario recuperarne la peculiarità e la conseguente dignità. Chi, dovendo giudicare una casa, darebbe poca importanza alle fondamenta? Solo un ignorante o un folle. Le fondamenta non devono essere abbellite o allungate ma rinforzate con il cemento, che nella scuola sono in primo luogo i contenuti (che devono essere padroneggiati in primis dagli insegnanti), poi certo anche i metodi per renderli efficaci.