La recente pubblicazione del ministero dell’Economia del modello per la dichiarazione Imu degli enti non commerciali e le aperture evidenziate nelle istruzioni accompagnatorie, comunicazione del Mef in ordine alla definizione della esenzione dal pagamento dell’Imu, sono state giustamente accolte con favore dal settore delle scuole paritarie poiché sembrava portare a soluzione il problema sorto dopo il varo del D.L. n. 201/2011 voluto dal Governo Monti.
La decisione di agganciare l’esenzione fiscale ad un parametro economico quale il costo per alunno che lo Stato sostiene è sicuramente un grande passo avanti nel dibattito verso una pari dignità del nostro settore che, non dobbiamo mai stancarci di ripeterlo, il Parlamento, varando la legge 62/2000, ha considerato facente parte a pieno titolo dell’unico sistema nazionale di istruzione e formazione, ma l’analisi attenta del provvedimento evidenzia che, ancora una volta, la decisione non è favorevole al sistema, ma solo ad una tipologia di scuole che beneficiano della regolarizzazione di rilievi avuti in ordine alla tassazione dei beni ecclesiastici, come ha evidenziato su questa testata Damiano Zazzeron.
La limitazione è figlia del “peccato originale” di una norma che interessava solo di riflesso le scuole paritarie, senza metterle al centro dell’attenzione, e anche l’ultima decisione del Mef non ha dato la giusta risposta all’attesa del pieno compimento del principio di parità.
Ne è segno evidente il fatto che il provvedimento, oltre ad escludere le realtà profit, esclude, in campo no-profit, anche onlus e cooperative sociali, come ben evidenzia Marco Masi nel suo articolo, nonostante le scuole da loro gestite rispettino il parametro richiesto di far pagare alle famiglie rette inferiori al costo medio di un alunno di scuola statale.
Va ricordato che la querelle è nata da una “errata” indicazione del decreto Monti in cui la soluzione normativa escludeva dall’imposta gli stabili di proprietà della Chiesa adibiti ad attività non commerciali. Questa apertura aveva dato l’illusione a molte scuole paritarie di poter usufruire dell’esenzione, ma, al contrario, la dizione “non commerciale” ha dato il via ad un percorso ad ostacoli a cominciare da una decisione della Corte di Cassazione (sezione lavoro, 14 giugno 1994, n. 5766) che, in sostanza, sentenzia che qualsiasi attività che offre servizi dietro un corrispettivo deve essere considerata “commerciale” indipendentemente dalla natura giuridica dell’ente che lo eroga e, quindi, tutte le scuole paritarie. Si è aggiunto, inoltre, anche il parere espresso dal Consiglio di Stato nell’ Adunanza di Sezione dell’8 novembre 2012 (NUMERO AFFARE 10380/2012) in cui ha invitato il Governo a riscrivere il “Regolamento ministeriale sull’Imu alla Chiesa nei tre punti fondamentali delle attività miste degli enti no profit (scuole ed alberghi, ma soprattutto sanità)”.
A differenza dei “desiderata generali” il risultato non è stata la modifica e/o sostituzione della norma, ma quello di cercare di dare una nuova definizione al termine “non commerciale”, obiettivo che si è cercato di ottenere con il varo del D.M. n. 200 del 2012 che imponeva agli enti non commerciali un adeguamento del proprio statuto.
Il “rattoppo” ha provocato un altro “pasticcio”, ossia quello di indicare quali attività non commerciali quelle che chiedono “corrispettivi di importo simbolico”, definizione assolutamente inapplicabile alle scuole paritarie. La necessità di trovare una soluzione per riuscire a sbrogliare la ingarbugliata matassa, ha portato ad analizzare a fondo anche le norme europee ed è stato di aiuto determinante e presa a riferimento la norma della Commissione Europea sugli aiuti di Stato (C(2011)904 del 20.12.2011 – paragrafo 2.1.15) che ha permesso di sostituire la dizione commerciale/non commerciale con quella europea economico/non economico.
Questo approccio, nel suo adeguamento alla realtà italiana, ha portato all’intervento del Mef che considera non economica, quindi esente dal pagamento dell’Imu, l’attività svolta dalla scuole paritarie le cui rette sono inferiori al costo per alunno che lo Stato sostiene per analogo percorso di studi.
Quando si parte con il piede sbagliato e, anziché ricominciare da capo, si cercano solo aggiustamenti, purtroppo i problemi sono sempre dietro l’angolo. L’intervento del Mef ha sì ampliato il campo di intervento, estendendo l’esenzione anche ad immobili non ecclesiastici, ma non ha avuto il coraggio di risolvere il problema nella sua essenza, come richiesto da più parti dal nostro settore: l’esenzione deve essere concessa per tutti gli stabili adibiti ad attività che offrono un servizio pubblico e di alta rilevanza sociale e l’istruzione offerta dalle istituzioni paritarie appartiene a questa tipologia.
Il principio europeo di economico o non economico cui ci si è riferiti è stato applicato solo in modo parziale e strumentale per risolvere il caso conflittuale in discussione (vedi retta pari a quota simbolica), ma la citata norma europea è aperta a tutti e nulla indica sulla natura giuridica delle istituzioni.
Vengono spontanee due domande: che senso ha escludere dall’agevolazione scuole che rispettano correttamente il parametro stabilito dal Mef? Ancora una volta non si è valutato un problema nel suo complesso giungendo ad una scelta che finisce per essere discriminatoria?
La speranza è che non ci si fermi qui e che questo provvedimento sia un punto di partenza verso una soluzione che finalmente riconosca il servizio pubblico che tutte le scuole paritarie offrono, indipendentemente dalla loro natura giuridica e che, tra l’altro, non crei discriminazioni all’interno del nostro settore causando condizioni di non pari opportunità economiche che sarebbe in contrasto con la norma europea attenta a far sì che gli aiuti di Stato non falsino la libera concorrenza del mercato interno.