Voglio partire dal 1925, dall’anno di uscita di Ossi di seppia che qualche equivoco ha generato in merito alla pertinenza e attinenza con l’ermetismo di Montale. Un anno topico, se si vuole, perché oltre gli Ossi che aggettano al Novecento da poco inaugurato da Ungaretti con il Porto sepolto, viene pubblicata in Italia anche la seconda antologia poetica del futurismo, decisamente retrograda rispetto l’indirizzo che aveva ormai preso la nostra poesia. E arrivare fino al 1941, con Frontiera di Vittorio Sereni, l’opera che va senza dubbio considerata conclusiva della stagione ermetica, opera che segue di un anno appena Avvento notturno di Mario Luzi, capolavoro da valutare apice dell’ermetismo costola fiorentina.
E nel mezzo? C’è anche Carlo Betocchi (1899-1986): non dimentichiamolo più, per favore. Già è stato lasciato fin troppo in ombra, tra ermetismo fiorentino e altro Novecento, gigante tra l’una e l’altra sponda. Lui è pressoché nel mezzo, anche cronologicamente, con il suo esordio datato al 1932 con Realtà vince il sogno, un titolo pasoliniano mi verrebbe da dire. Un anno anche questo che qualche equivoco ha generato su di lui, visto che Quasimodo con Oboe sommerso e Gatto con Isola di fatto hanno originato e codificato la poetica e la grammatica dell’ermetismo. Carlo Betocchi non ha a che farci, nonostante i fiorentini Luzi (che lo stimava suo maestro), Bigongiari (più distaccato) e Parronchi (ma questo poeta è ancora un’altra storia), la sua poesia non è di quella linea lì, si trova a quell’altezza temporale ma è tutt’altra cosa (E detto per inciso a metà strada tra Ossi e Occasioni, 1939, di Montale).
“Io un’alba guardai il cielo e vidi/ uno spazioso aere sulla terra perduta;/ negletta cosa stava tra i suoi lidi,/ tra gli spenti smeraldi oscura e muta” questa la prima quartina in Realtà vince il sogno. Carlo Betocchi sta recandosi al lavoro in bicicletta, sui cantieri della statale Arezzo-Siena, lo farà per una vita o quasi, e lo sguardo è colmo di crescente stupore per il creato, fino a chiudere la poesia così: “E dentro i nostri cuori era come/ dentro valli ripiene di nebbie e di sonno/ un lento ascendere dello splendore/ che poscia illuminò i monti del mondo” (e se qui trascrivessi una delle tante “albe” di Alfonso Gatto lo stacco dall’ermetismo risulterebbe lampante). La realtà, perché è realtà quella di Betocchi, si manifesta e si traduce in illuminazione interiore, la poesia diventa per l’autore un inno di lode alla creazione.
Giorgio Caproni, l’amico di una vita, vi avrebbe intravisto il cristiano realismo della stringatissima ispirazione la quale, pur tenendo l’occhio costantemente puntato al cielo non perde mai di vista la terra. E Betocchi la terra e l’uomo non l’ha mai perse di vista, lui che ha saputo con cuore e spirito forte affrontare una vita di fatica materiale non comune, una vita però che ha dato linfa inesauribile alla sua poesia che origina da un ben definito clima familiare e ha precise e solide radici: l’amore, la povertà, la gioia, la pena quotidiana, l’umiltà accettate con autentico spirito francescano.
Insomma: la croce l’ha imbracciata, “rimediata/ tra rimasugli d’un antro artigiano”. La sua poesia è scoperta della vita (“partiva da lì: ero colmo di questa capacità di vita che m’era stata data, e la cui giusta misura era quella di farmi sentire creatura fra le creature”), come dire che al fondo della sua intuizione poetica, rivelazioni come le chiamerà, che lo fanno balzare “addirittura dal sonno, lucidissimo, chiamato a destarmi da quel flusso veemente”, c’è un modo tutto suo di sentire Dio come universo nascente.
Avrà Betocchi altre stagioni e libri felici, su tutti L’estate di San Martino (1961) dove ormai gli tocca registrare nel tempo che passa l’assenza di carità, e ne è sgomento, ragionando con profetica lucidità su come “il mondo/ sia un’arida clessidra, e noi come sabbia/ che, dentro, vi scivoliamo”. Di fronte allo sgretolarsi dell’essere del mondo “non altro che suono” salvifica appare la preghiera: “la mia anima/ prega sugli orizzonti senza suono (…) la mia anima prega per ciò che muore”.
«Disegnare l’operazione poetica di Betocchi — scriveva Pasolini nell’aprile del 1953 — è fare il ritratto di una “grazia”» da non intendersi come una categoria critica allacciata all’abito poetico di Betocchi perché nel suo universo tutto è grazia. Non c’è aspetto del reale – dal paesaggio alla morte, dal più piccolo essere vivente all’universo intero – che non venga da lui osservato con lo sguardo partecipato e commosso, mirabilmente toccato dalla grazia nella parola e nella presenza nel mondo.
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Giovedì 9 giugno il Centro Culturale di Milano dedica un appuntamento a Carlo Betocchi. Gli ospiti: Giancarlo Pontiggia, poeta e docente di Letteratura Italiana, Davide Rondoni, poeta e scrittore. Modera Francesco Napoli. Ore 18.30, Palazzo del lavoro, Piazza IV Novembre 5, Milano.