La particolarità dell’approccio dantesco di Mandel’štam è la sua viva ricerca di uno sguardo oggettivo su Dante, lontano dai possibili “inquinamenti” idealizzanti dei romantici e dei simbolisti russi.
Osip Emil’evic Mandel’štam, nato nel 1891 a Varsavia da genitori di origini ebraiche, passa la sua infanzia e poi gran parte della sua vita a san Pietroburgo. Nel 1911 entra a far parte del nucleo primitivo di quello che sarà poi il movimento “acmeista”, un gruppo di poeti che promuoveva, di contro alla metafisica simbolista da loro ritenuta troppo astratta, il ritorno ad un equilibrio nel rapporto fra soggetto e oggetto, rivendicando le cose di questo mondo, rivendicando la realtà. Mandel’štam ne diventerà uno dei più grandi esponenti.
La vita del poeta e della moglie Nadežda Chazina si trascinò, a partire dal 1923, fra Mosca, san Pietroburgo e la Crimea: entrato infatti in disgrazia agli occhi del regime per la sua profonda libertà individuale e culturale, Mandel’štam fu perseguitato in diversi modi dal regime, riuscendo a sopravvivere solamente grazie agli aiuti degli amici poeti, tra cui Anna Achmatova e il grande romanziere Boris Pasternak. Questi arrivò addirittura a telefonare a Stalin in occasione del primo arresto di Mandel’štam, avvenuto nel 1934, per intercedere per l’amico.
Dopo alcuni anni di esilio, Mandel’štam venne nuovamente arrestato, quindi condannato a cinque anni di lager da scontare nell’estremo oriente della Siberia. Morirà di stenti nel campo Vtoraja Recka il 27 dicembre 1938. La moglie Nadežda riuscì a fuggire dall’Unione Sovietica portando con sé le poesie inedite del marito, e trascorse la sua vita (anche dopo il suo ritorno a Mosca nel 1958) a lottare per mantenere viva la memoria del marito. Le sue memorie, pubblicate all’inizio degli anni 70, la trasformarono in uno dei maggiori testimoni degli orrori del totalitarismo novecentesco.
La poetica di Mandel’štam si fonda, oltre che sui già visti principi dell’acmeismo, principalmente sulla forza della parola: la poesia per il poeta russo è paragonabile all’architettura, è edificare contro l’avanzare del nulla, è porre al centro di tutto l'”esistenza” della realtà; e la parola è la pietra utilizzata per costruire, ed è un ente che non è possibile dividere in forma e contenuto: «la parola è già un’immagine suggellata che non si può toccare», e il suo significato penetra la forma ed è da essa formato ed esplicitato.
Proprio questa attenzione all’essenza della parola costituisce una delle principali chiavi di lettura di Dante da parte di Mandel’štam. La Achmatova ricorda che Mandel’štam scoprì Dante nel 1933: «ardeva tutto per Dante […] Da pochissimo aveva imparato la lingua italiana. Recitava la Divina Commedia giorno e notte… E in seguito recitammo spesso Dante insieme».
Mandel’štam scrive la sua Conversazione su Dante nel 1933, durante un viaggio in Crimea. Si tratta di un complesso insieme di spunti, idee, intuizioni, che nascono in lui in quel periodo e che detta alla moglie senza indugio. Il manoscritto si salverà fortunosamente, quasi per miracolo, e sarà pubblicato per la prima volta nel 1967.
Nella Conversazione Mandel’štam si scaglia contro le letture passate di Dante in Russia, soprattutto quella simbolista, bollandole come prive di qualsiasi contenuto concreto. Egli propone un ritorno al Dante reale, alla sua lingua, alla concretezza del suo linguaggio e alla musica della sua poesia. Mandel’štam non vuole che ci si accosti a Dante estrapolando il significato dalla forma, come se questa fosse un gioco, ma afferma che prima di tutto il significato della poesia dantesca sta nella sua stessa sostanza, nella sua musica: «[Dante] dice: “Io premerei di mio concetto il suco – (Inf., XXXII, 4)”, [quindi] “Io spremerei il succo dalla mia idea, dalla mia concezione”: la forma cioè gli si presenta come il risultato di una spremitura, non già di un involucro. Dunque, per strano che sembri, la forma viene spremuta fuori da un contenuto-concezione, il quale, in un certo senso, la riveste. Così è fatto il nitido pensiero dantesco».
Indimenticabile, a spiegazione del passo appena citato, la sua lettura dell’episodio del conte Ugolino (Inf., XXXIII): egli descrive l’esordio del discorso del conte come un’aria di violoncello (con un affascinante anacronismo), la cui densità di timbro «è destinata a rendere come meglio non si potrebbe il senso di attesa e tormentosa impazienza. È la struttura drammatica del racconto stesso che scaturisce dal timbro: non è il timbro che viene ricercato e sovrapposto alla struttura, come su una forma da scarpe».
Altrettanto memorabile è la definizione delle metafore dantesche come dispositivi che catturano e provvedono a incanalare il «flusso energetico» della poesia, «mai descrittive, cioè puramente figurative», ma con «il concreto scopo di rendere l’immagine interna della struttura o della tensione»: così le similitudini ornitologiche contribuiscono a rendere l’idea e la tensione del viaggio, le similitudini fluviali veicolano l’idea di patria e nazione… Ma le intuizioni e le ricchezze della Conversazione su Dante sono decine e decine in pochissime pagine, e sarebbe impossibile esaurire il discorso in poche righe.
Quel che conta considerare è che Mandel’štam si pone in un ascolto quasi religioso di Dante, del Dante più “concreto” e quando ne parla finisce inevitabilmente (e forse inconsapevolmente) a parlare anche di sé, della propria poesia: questo è ciò che spesso succede quando un poeta si mette a leggere un altro poeta.
Il risultato di un tale incontro è quasi sempre la scintilla che dà il via ad una nuova creazione, appartenente a un vero e proprio genere letterario a sé stante, al quale raramente partecipa il critico di professione (come giustamente ha osservato Maria Corti ne La poesia di Dante). Paragonando le terzine dantesche ad un ritmo di valzer, o la poesia della Commedia ad un tappeto arabeggiante ricco di orditi e di tinte, o il poema stesso ad un monumento di granito attraversato da numerosi fasci di energia, Mandel’štam crea in qualche modo della nuova poesia. Chi avrebbe mai detto che Dante sarebbe potuto rivivere con una tale freschezza e novità, a tanti secoli e tanti chilometri di distanza, diventando perfino lo “strumento” per la nascita di una nuova opera d’arte?
(2 – fine)